VENEZIA - Amava la vita e l’avventura, ma non aveva paura della morte Pierluigi Penzo. Aveva 32 anni quando si schiantò fatalmente con l’idrovolante...
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
Tutto il sito - Mese
6,99€ 1 € al mese x 12 mesi
Poi solo 4,99€ invece di 6,99€/mese
oppure
1€ al mese per 3 mesi
Tutto il sito - Anno
79,99€ 9,99 € per 1 anno
Poi solo 49,99€ invece di 79,99€/anno
LE ORIGINI
Pieluigi Penzo era nato a Malamocco, borgo lidense che gli dedicò la scuola elementare, ma quando il padre Vittorio fu chiamato a dirigere la corporazione degli ormeggiatori del porto la numerosa famiglia si trasferì a Venezia, perchè i collegamenti con le isole allora erano impensabili. E a Venezia frequentò prima l’istituto nautico, poi l’accademia militare. A vent’anni era già arruolato nella Regia Marina. Ma non era il mare ad attirarlo, quanto piuttosto il cielo, un settore, quello dell’aviazione, agli albori. Ed eccolo prendere il brevetto di pilota di idrovolante a Sant’Andrea. Ma non furono solo successi: fu abbattuto verso le fine della prima guerra mondiale nell’Alto Adriatico, fatto prigioniero, processato a Spalato per irredentismo, spedito in campo di concentramento a Mathausen. A fine guerra fu congedato, e divenne molto amico di Gabriele D’Annunzio, con cui condivideva la passione per il volo. E dalla Marina passò all’Aeronatica, partecipando a crociere con personaggi del calibro di Italo Balbo. Poi la spedizione al Polo Nord, con la missione di salvataggio all’equipaggio del dirigibile Italia di Umberto Nobile e il triste epilogo al rientro.
IL FIGLIO
Luigi, che tutti iniziarono a chiamare Pierluigi in onore del padre eroe che non c’era più, ha vissuto gli anni della prima infanzia a Pola, città di origine della mamma. «Ma rimase molto legato a Venezia, dove arrivava in aereo, dove c’erano i nonni e gli zii. In particolare lo zio Attilio, al quale nonno Pierluigi aveva idealmente affidato moglie e figlio in una lettera accorata» racconta la nipote Lucia. E proprio dalle vecchie lettere ritrovate nei giorni scorsi dai familiari emerge il lato “umano” dell’aviatore di cui anche ai Giardini napoleonici viene custodita una statua alla memoria. Ne esce la figura di un top gun classe 1896, con un grande attaccamento alla donna della sua vita, cui sapeva scrivere lettere dolcissime, ma che era irresistibilmente calamitato dalla sua professione, pur nella consapevolezza del rischio che correva in ogni volo. E i voli erano tanti. «Prima di partire per il polo Nord - racconta ancora Lucia - aveva raccomandato allo zio Attilio di prendersi cura del figlio e della moglie se gli fosse accaduto qualcosa. Quasi avesse il presentimento». E anche il cane che Pierluigi aveva portato da un viaggio fu molto protettivo nei confronti del piccolo: dalla morte del padrone divenne feroce con le persone e gli altri animali, ma era affettuosissimo con il bambino. Fu proprio lo zio a scegliere per Luigi il collegio degli orfani dell’Aeronautica, dove Luigi entrò a 9 anni: «Un posto dove i ragazzi, accomunati dal fatto di essere orfani di personaggi spesso famosi, studiavano, facevano ginnastica, andavano al mare, in montagna in un clima di cameratismo che è rimasto tale ancora oggi. Una specie di famiglia allargata» prosegue Lucia. Anche Luigi prese il brevetto di pilota di volo, e paradossalmente il fatto di essere chiamato come il papà, Pierluigi - mentre per brevità il padre veniva chiamato Luigi - creò un’omonimia che invece di favorirlo gli fu burocraticamente d’impiccio. Ma poi il titolo fu attribuito. «Papà ha fatto carriera nell’aeronautica, ma non è mai stato il classico militare, ha fatto anche qualche anno di medicina, ma si è sempre interessato di tutto - spiega ancora la figlia Lucia - ti parla delle stelle, di come si fa una puntura, di filosofia, dell’atomo, ma anche della frangetta di Naomi Campbell». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino