VENEZIA - Il Patriarcato di Venezia dovrà restituire 5,9 milioni di euro alla Regione Veneto. Si tratta di soldi che la Diocesi, all'epoca retta dall'allora...
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LA VICENDA
La giunta Galan il 12 novembre 2004 aveva revocato alcuni importi della legge speciale per Venezia e l'11 febbraio 2005 aveva deciso di devolvere 24 milioni al Patriarcato. Una mossa che un decennio dopo, in seguito allo scandalo Mose, aveva scatenato polemiche e inchieste: ma quella è un'altra storia. Questa vicenda si riferisce invece al fatto che fra 2015 e 2016 la Regione aveva avanzato perplessità sulla rendicontazione delle spese. Le fatture presentate avevano infatti rideterminato il finanziamento pubblico in 21.778.185,66 euro, ma secondo gli uffici le spese riconoscibili a contributo regionale assommavano a 15.667.621,30 euro. In particolare un gruppo di lavoro appositamente costituito aveva escluso che potessero essere inclusi i costi del secondo stralcio, i lavori fatturati alla Fondazione Studium Generale Marcianum e al Seminario patriarcale, quanto pagato in relazione all'accordo bonario con le imprese esecutrici e parte delle spese relative ai compensi dei componenti della commissione di verifica. Per questo Palazzo Balbi, nel frattempo presieduto da Luca Zaia, aveva sollecitato la restituzione di 5.932.378,70 euro da parte della Diocesi, di cui ora è patriarca Francesco Moraglia.
LA CAUSA
Si è così arrivati alla causa civile, promossa dal Patriarcato (con gli avvocati Andrea Pavanini e Valeria Zambardi) contro la Regione (con gli avvocati Franca Caprioglio ed Ezio Zanon). La Diocesi chiedeva che venisse accertato il suo diritto all'erogazione dei 21,7 milioni, con la condanna di Palazzo Balbi a versare la differenza tra quanto dovuto e quanto liquidato, vale a dire 178.185,66 euro, senza dover ridare indietro alcunché. Istanze che la controparte domandava invece di respingere. Così alla fine è stato, secondo la sentenza di primo grado (e dunque impugnabile in Appello) che è stata pubblicata martedì. La tesi della Curia era che tutti i lavori al centro del contenzioso, per i quali era stata era stata usata l'espressione secondo stralcio, riguardavano sempre e soltanto il Seminario patriarcale e costituivano opere già comprese nel progetto generale, il cui realizzo era legittimo senza la necessità di una preventiva autorizzazione da parte della Regione.
LE MOTIVAZIONI
Ma il giudice Bruni non è stata di questo avviso, stando alle motivazioni sviluppate a partire da una premessa netta: «Va precisato anzitutto che l'impiego dei fondi pubblici in precisa corrispondenza alle finalità per cui sono stati concessi costituisce un principio generale dell'ordinamento». Dunque l'ente pubblico aveva il diritto di sindacare sull'utilizzo dei contributi: «Deve ritenersi pertanto del tutto ovvio, immanente al sistema, a prescindere da specificazioni nel bando, il potere dell'ente erogatore di verificare non solo l'effettività della spesa ma prima ancora la sua inerenza alla finalità indicata nell'atto di concessione del finanziamento». Sul fatto che le opere realizzate fossero complementari al primo stralcio, come sostenuto dal Patriarcato, il magistrato dissente: «L'assunto è infondato perché si basa su un mero distinguo terminologico e confonde piani distinti». Di conseguenza sono state rigettate le domande della Diocesi, che è stata anche condannata al pagamento delle spese di lite, pari a 61.085 euro.
Angela Pederiva
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Il Gazzettino