Dal panettone alla cocaina: il doppio volto del carcere di Padova

Il carcere Due Palazzi di Padova
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PADOVA - Adesso se lo chiedono in tanti, ma senza riuscire a trovare una risposta. Possibile che il carcere di Padova, quello dei panettoni preparati dai detenuti, delle attività di recupero sociale, di tassi elevatissimi di lavoro per i reclusi, sia finito a questo punto? Ovvero, si stia rivelando come una delle strutture italiane più compromesse, dopo che a luglio sei agenti sono stati arrestati (due in carcere, quattro ai domiciliari) per traffici di droga e telefonini? Il Due Palazzi appare come un altro mondo, un paradosso in cemento armato, vetri antiproiettile e sbarre di ferro, un sistema - completamente rovesciato - di massima insicurezza. Perché da quando le prigioni esistono, il problema è che da quelle quattro mura non si possa uscire. Qui, invece, pare che il problema non sia quello di impedire che qualcuno fugga, bensì di evitare che qualcosa entri. La struttura progettata e realizzata per vanificare le evasioni, appare impotente di fronte alle importazioni illegali. Per non essere generici: droga sotto forma di hashish, eroina, cocaina e metadone, strumenti elettronici di comunicazione come telefonini, carte sim, chiavette usb, palmari, nonchè video a "luci rosse" per passare piacevolmente il tempo che, dietro le sbarre, scorre più lentamente che altrove.




«Non mi ero accorto di nulla, altrimenti sarei intervenuto» è quello che ripete il direttore Pierluigi Pirruccio, che ha messo a verbale le stesse parole, quando è stato interrogato come persona informata dei fatti dal pubblico ministero Sergio Dini. E ha tirato in ballo la mancanza di personale, visto che i reclusi sono circa 800 (al sesto posto in Italia per sovraffollamento, con un indice del 188 per cento rispetto ai posti previsti). Le guardie sono 300. Il Due Palazzi è come una piccola città in continua mutazione, dove può avvenire di tutto. Il direttore preferisce concentrarsi sul presente: «È passato un mese e mezzo dagli arresti, poi ci sono stati i due suicidi... adesso ci stiamo riprendendo dallo sconforto».



«Questa è una polveriera che esplode ogni giorno. Ma le istituzioni non se ne vogliono rendere conto. Il clima è teso, il personale è allo sbando, bisogna recuperare tranquillità nel lavoro» accusa Gianpietro Pegoraro, responsabile del sindacato Funzione Pubblica della Cgil. E punta il dito contro l’amministrazione. «Il Nordest ha un provveditore pro-tempore, che viene dal Piemonte per pochi giorni alla settimana, manca così una figura di controllo a livello regionale. Anche per questo non si è capito quello che stava accadendo».



Parla di un «clima di sospetto», di «un lavoro che è come un inferno», anche alla luce dei due suicidi recenti e legati all’inchiesta. A fine luglio il detenuto Giovanni Pucci che voleva uscire dal "giro" di rifornimento interno era stato minacciato e picchiato, ma dopo averlo raccontato al magistrato tirando in ballo un paio di agenti, si è impiccato con i lacci delle scarpe. Dieci giorni fa la guardia Paolo Giordano, ai domiciliari nell’appartamento di servizio, si è tagliato la gola con una lametta da barba.



«Noi poliziotti penitenziari ci rendiamo conto di essere i più esposti in quanto catalizzatori di tutti i problemi dei detenuti. Siamo il primo soccorso quando accade qualcosa. È per questo che abbiamo chiesto di avere gruppi di ascolto, l’aiuto al personale da parte di specialisti» continua Pegoraro. E adesso il sindacato cerca anche di coinvolgere i parlamentari.



«Abbiamo scritto loro dicendo che vengano a trovarci, a rassicurare il personale sano. E adesso scriveremo anche al ministro della Giustizia perché venga a Padova e renda merito a chi lavora onestamente. Se ci sono le mele malate vanno scoperte e punite, ma non si criminalizzi il corpo degli agenti». I segnali di malessere interno, per la verità, erano emersi qualche mese fa. «Dopo averli incontrati a Mestre a maggio, mi sono fatto portatore al Senato di un incontro tra i rappresentanti delle carceri del Triveneto e il reggente della Direzione dell’Amministrazione Penitenziaria, partendo dai problemi della casa di reclusione di Padova» spiega il senatore Felice Casson del Pd.



«C’era anche il sottosegretario Cosimo Ferri e dagli agenti è venuta la richiesta di poter contare su assistenti sociali e psicologi, che sono in numero assolutamente irrilevante, considerate anche le tensioni interne». «Ma Padova per certi aspetti è anche un’isola felice, se pensiamo alle molte possibilità di lavoro interno al Due Palazzi. Il carcere è anche un sistema sociale, e a Padova la rete sociale esiste. - fanno sapere dalla sede del Dipartimento, in piazza Castello a Padova - E siamo molto impegnati nell’attuazione della riforma, con le porte delle celle che restano aperte per otto ore al giorno, per garantire lo spazio vitale ai detenuti, che prima restavano chiusi tutto il giorno».



Eppure la Procura ha acceso un faro per capire quanta droga sia circolata negli ultimi anni in carcere, chiedendo copia di tutte le denunce inoltrate dall’amministrazione. Saranno anche riesumate le cartelle cliniche relative ai casi di overdose. Dovevano essere tutti segnali d’allarme che evidentemente sono stati sottovalutati. Se una popolazione carceraria è composta dal 30 per cento di tossicomani, a cui si aggiungono gli spacciatori, è evidente che il mercato della droga esiste, anche dietro le sbarre. Il sospetto (come in parte sta dimostrando l’inchiesta) è che siano parecchi gli agenti dediti agli stupefacenti. E questo li rende potenziali fornitori ai detenuti che chiedono droga. Difficile capire quanti sono.



«Il fenomeno è diffuso in tutti i corpi di Polizia» avverte il sindacalista Pegoraro. Perché a Padova sono stati scoperti dopo che trafficavano da tempo? «Facevano tutto in sordina, erano molto accorti, formavano sempre la solita squadretta, si coprivano a vicenda» risponde un agente che vuole mantenere l’anonimato. Capire se una guardia si droga è quasi impossibile, se non si fa pizzicare all’esterno mentre compera la "roba". In carcere i medici si occupano solo dei detenuti, non degli agenti. È l’unico Corpo di Polizia sprovvisto del servizio. E così, dopo la prima visita che precede l’arruolamento, non vengono più controllati. Un vuoto normativo molto grave, perché gli agenti di custodia sono a contatto con una popolazione pronta a tutto e perché ognuno di loro porta la pistola d’ordinanza. Da poche settimane sulla poltrona di sindaco, il leghista Massimo Bitonci non vuole guardare al carcere come a una realtà separata. «A parte il fatto che anche qui come in tutte le carceri del Nord l’incidenza dei detenuti extracomunitari è altissima, il Due Palazzi si è sempre distinto per la capacità di far arrivare lavoro all’interno, grazie all’impegno di tanta brava gente».



Un modello in crisi? «La possibilità di lavorare, di trovare un’attività, di acquisire una professionalità vera per quando si esce, va estesa a tutte le prigioni italiane. E il Comune di Padova non è contrario a forme di collaborazione, anche lavorativa, che punti allo rieducazione».
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Il Gazzettino