Figlio uccide il padre. «La rete familiare non coglie la gravità quella sociale non riconosce i segnali»

Gerardo Favaretto, direttore del dipartimento di Salute mentale dell'ospedale Ca' Foncello di Treviso per tredici anni, fino al 2019, lega gli episodi di follia sfociati...

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Gerardo Favaretto, direttore del dipartimento di Salute mentale dell'ospedale Ca' Foncello di Treviso per tredici anni, fino al 2019, lega gli episodi di follia sfociati in omicidi a uno stesso filo. Li paragona a indicatori, segnali di difficoltà. Dove, tra le difficoltà, c'è la rete familiare che non coglie la gravità dei fenomeni. E poi la rete sociale che non riesce a riconoscere i segnali del disagio. E poi i servizi, la cui accessibilità non è sempre immediata e facile. Il figlio che ieri ha ucciso il padre in preda a un raptus paranoico a Vittorio Veneto. E, ancora il figlio che ha ucciso l'anziana madre il 24 ottobre scorso a Conegliano: Maria Luisa Bazzo temeva di essere uccisa dal figlio ma era sicura di poterlo gestire da sola. O, ancora, Steve Quintino e il delirio in Pedemontana: 40 minuti di follia tra le strade di Riese Pio X, Altivole e San Zenone terminati con l'uccisione di un ciclista. E poi, l'omicidio suicidio di Mel, in provincia di Belluno.


Dottor Favaretto, come leggerebbe gli ultimi casi di omicidi in famiglia? Tutti causati da persone border line, con disagi psichici non riconosciuti e non curati?
«Il primo problema riguarda l'attitudine delle famiglie a riconoscere il segnale di disagio e a non minimizzare. Ammettere che un proprio congiunto ha difficoltà mentali alle volte è un problema per gli stessi familiari che tendono a interpretare questi sintomi come momenti evolutivi o di passaggio. Come qualcosa che si risolverà da solo. Quindi, non chiedono aiuto finchè non è troppo tardi».


Perché si tende a minimizzare il problema?
«La dinamica più comune è disconoscere l'esistenza dei problemi sperando che si cancellino. Ecco perchè è fondamentale ribadire l'importanza dell'informazione sulla salute mentale per far conoscere i fattori di rischio. Far capire che di fronte a certi comportamenti bisogna intervenire».


Quali sono i fattori di rischio?
«Se, ad esempio, i giovani non studiano nè lavorano, se non hanno un progetto di vita. Oppure se fanno uso di sostanze, droga o alcol, oppure, ancora, se esiste una specie di ritiro sociale. Sono tutti sintomi di fragilità che vanno percepiti e affrontati nelle sedi opportune, senza il fai da te».


Un'altra considerazione?
«Le famiglie non devono sentirsi isolate, chiuse. Devono sapere di poter contare su una rete sociale. Cioè, su orecchie puntate sul disagio, come i punti di ascolto o punti di raccolta delle difficoltà. Le reti naturali sono la parrocchia, oppure i centri del Comune. Sarebbero reti di fondo che dovrebbe avere la capacità di essere un momento di riferimento del disagio. E poi, il medico di medicina generale che dovrebbe aiutare la famiglia indirizzandola verso una risposta specifica».


Resta il problema dei servizi sanitari


«Il problema dell'accesso ai servizi è un problema importante perchè non sempre è facile poter accedere ai servizi dell'Usl. La possibilità di ricevere direttamente supporto dai servizi è di vitale importanza in certe situazioni. E su questo giocano le priorità che si vogliono dare alla salute mentale. Bisogna parlarne non solo quando succedono tragedie terribili. La salute mentale è una parte stessa della vita della comunità. È una parte stessa della salute». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino