Sandro Mazzola, la bandiera dell'Inter: «Al Penzo cercavo sempre papà»

VENEZIA Sandro Mazzola in una foto d'archivio
Dici Venezia-Inter e pensi alla saga dei Mazzola. Al mitico Valentino, che fece grande il Venezia con la Coppa Italia del ’41 ed il quasi-scudetto del ’42, caduto col...

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Dici Venezia-Inter e pensi alla saga dei Mazzola. Al mitico Valentino, che fece grande il Venezia con la Coppa Italia del ’41 ed il quasi-scudetto del ’42, caduto col Grande Torino nella tragedia di Superga nel 1949; al figlio Ferruccio, che vestì il neroverde in A e in B a metà anni Sessanta e fu il primo allenatore dell’era post fusione, chiamato da Zamparini a guidare l’allora VeneziaMestre alla conquista della prima promozione in serie C1, scomparso nel 2013. 


E in mezzo c’è Sandro, bandiera dell’Inter mondiale di Angelo Moratti, che a Venezia fu concepito, pochi mesi prima che il papà (assieme a Loik) venisse ceduto al Torino, dove poi nacque nel ’42. Nonostante i 79 anni appena compiuti, la voce è ancora squillante come ai tempi in cui dribblava e segnava.

RICORDI
“Posso giocare un quarto d’ora” ride al telefono dalla sua casa di Monza, dove abita da molti anni. E dove ha custodito i ricordi di una carriera che lo ha portato nel Pantheon del calcio italiano. Ma anche quelli familiari, quelli a cui forse tiene di più. A cominciare da papà Valentino, naturalmente.
“Ho perso mio padre quando avevo solo 7 anni, ricordo poco perchè ero piccolino. Mi portava sempre agli allenamenti al Torino, poi a fine seduta mi veniva a prendere, mi portava in campo e facevamo i tiri in porta. Ricordi bellissimi. Dite che è a Venezia è considerato il più forte giocatore che abbia mai giocato lì? Cavolo, bello, proprio bello”. 
E’ vero che venne in laguna per scappare dalla famiglia?
«Verissimo, la sua era una famiglia strana, volevano che andasse a rubare, perché era svelto a portare via la roba da mangiare, era gente molto povera. A Venezia venne per arruolarsi nella Marina e fare una vita onesta». 
Ma dove non giocava a calcio, giusto? 
“Esatto. Venne notato casualmente mentre giocava così, con un pallone non so se di cuoio o fatto di stracci o di carta. Fatto sta che lo vide un osservatore del Venezia, di cui ora non ricordo il nome, e lo portò a fare un provino per il club. Lo presero subito”. 
Da giocatore in maglia nerazzurra il Venezia l’ha incrociato più volte, che effetto le faceva?
“Il fatto è che col Venezia non l’ho proprio mai presa. Ogni volta che venivo al Penzo, mi distraevo, mi guardavo attorno, avevo la mente lontana, era una cosa strana: cercavo mio papà, perchè sapevo che quello era il suo stadio, quello dove era nato come calciatore e non giocai mai bene. Ricordo che la prima volta a fine partita ero seduto in spogliatoio in lacrime, l’allenatore venne lì e mi disse “dai, non pensare a queste cose”. Ma era un’emozione molto particolare, in fondo anch’io sono stato concepito in laguna”. 
Al Penzo ha giocato anche contro suo fratello Ferruccio, stagione 1966-67, vinse l’Inter 3-2 e lei fece gol dopo soli 3’.
“Mio fratello era fenomenale, mi ricordo che prima della partita venne da me e mi disse con tono minaccioso “mi raccomando, non pensarci neppure a fare gol, sennò ti vengo a cercare, noi abbiamo bisogno di punti, perchè dobbiamo salvarci”. Alla fine vincemmo noi, ma in realtà io giocai male, perchè pensavo ad altro”. 
Helenio Herrera, artefice della Grande Inter, ha vissuto gli ultimi anni a Venezia, dove è anche sepolto: cosa ha rappresentato per lei il Mago? 
“È la persona che mi ha insegnato come si gioca a calcio. Dopo l’allenamento parlava a tutti i giocatori, ci spiegava le sue teorie. A me diceva “passa la palla e scatta”. Sulle prime non ci credevo, poi iniziai fare come diceva lui e capii subito che aveva ragione. Mi cambiò anche ruolo, da centrocampista ad attaccante”.
 
PAPA’
Le sarebbe mai piaciuto giocare come suo papà? 

“Sì, anche se non ne avevo le caratteristiche. A me piaceva dribblare, tirare e fare gol, a lui piaceva dirigere il gioco, lanciava lungo, era davvero un grande centrocampista. L’ho fatto un po’ negli ultimi anni di carriera, ma non bene”. 
Si è mai rivisto in qualche campione arrivato dopo di lei?
“Mi rivedevo solamente in Crujiff, anche se il mio idolo in realtà era un altro: Puskas, volevo somigliare a lui, perchè era un centrocampista straordinario, mi ricordava appunto il modo di giocare di mio papà. Nel ’64 l’ho incrociato in finale di Coppa Campioni, venne da me a fine partite e mi disse “ho giocato contro tuo padre, era il più forte di tutti”, io me la feci addosso dall’emozione. Ci scambiammo anche la maglia”. 
Ha un nipote di nome Valentino che gioca a calcio: forte come nonno e bisnonno? 

“Non si può dire, i miei parenti non vogliono che vada a vederlo… così ci vado di nascosto, mi nascondo dietro un albero, vicino al campo, guardo la partita e poi a casa ripenso a come ha giocato. Il calcio ce l’ha nel sangue”.

 

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Il Gazzettino