Mauro Corona e il nuovo libro: "Le altalene" vuote di Erto e la ferita aperta del Vajont

«La forza mite e lenta della terra deturpata dagli uomini - scrive l'autore - innescata dal detonatore dio denaro, scoppiò mutando la mitezza in cataclisma»

ERTO - A Erto, il paese che ha la fatica nel nome, esiste un prima e un dopo. Prima di quel giorno, dopo quel giorno. Lo spartiacque, termine di feroce ironia, è...

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ERTO - A Erto, il paese che ha la fatica nel nome, esiste un prima e un dopo. Prima di quel giorno, dopo quel giorno. Lo spartiacque, termine di feroce ironia, è il 9 ottobre 1963 quando «piovve terra sulla terra, terra nell'acqua, terra su duemila fosse aperta». È il Vajont. Da quella notte nulla fu come prima e la vita dei rimasti continuò a oscillare tra memoria e presente, tra sofferenza e desiderio di ripresa, tra pianto e voglia di serenità, un andare e venire nel tempo come il movimento dell'altalena. A Erto ce n'era una appesa a ogni albero di cortile, a lei si affidavano felici i bambini prima che l'onda maledetta ne cancellasse quattrocentottantasette. "Le altalene" 174 pagine, Mondadori, 19 euro - è l'ultima opera di Mauro Corona, un libro uscito vicino al sessantesimo anniversario della catastrofe e nel quale il Vajont è sempre presente. E non poteva essere altrimenti, per un uomo che ha provato sulla propria pelle di adolescente (allora l'autore aveva tredici anni) il più grande disastro provocato dall'uomo in tempo di pace. 

Corona racconta e ricorda. Affida ciò che era e ciò che è alle parole di un vecchio che in realtà è egli stesso che ripercorre, in modo appassionato e angoscioso, la sua vita. Ma è sbagliato pensare a una sorta di testamento, l'opera è un romanzo che appare come il compendio di un'esistenza attraverso l'infanzia e l'adolescenza, difficili eppure libere assieme ai due fratelli, tutti segnati dalla violenza della vita in famiglia e «orfani di genitori viventi» ai quali però non lesina parole di affetto; la maturità accompagnata dalla scoperta di talenti come la scrittura e la scultura; l'incrollabile passione per la montagna che ne ha fatto un rocciatore eccellente; gli amici scomparsi; la vecchiaia, ineluttabile come il trascorrere del tempo nell'eterno andare e venire di consolazione e dolori. Come in altre opere dello stesso autore, la tragica notte del 1963 aleggia come una ferita impossibile da rimarginare, perché si può perdonare ma non dimenticare. «La forza mite e lenta della terra deturpata dagli uomini scrive Corona innescata dal detonatore dio denaro, scoppiò mutando la mitezza in cataclisma». Ricorda una donna coraggiosa, Tina Merlin, e usa parole durissime contro chi promette e non mantenne. Rammenta quando un «pifferaio nazionale () prometteva giustizia ai superstiti» ma «nemmeno un anno dopo difendeva il colosso dell'elettricità, responsabile del macello, in qualità di avvocato». E le altalene ondeggiavano vuote di voci e di bambini.

ASCIUTTO E DIRETTO


Lo stile è quello proprio e inconfondibile di Mauro Corona, asciutto e diretto, a tratti garbato e poetico, sempre sincero in un'opera che richiama la perpetua «andata e ritorno del destino». Il vecchio si raffigura come «una specie di Don Chisciotte alpino, sempre sconfitto, sempre pronto a rialzarsi per altri obiettivi». Come quando la sorte, perfida e vigliacca, colpisce i figli attraverso la malattia. Per fortuna tutto finisce bene, nell'alternanza del dolore e della felicità. Avanza anche il pensiero della morte, e si augura un commiato «alla maniera del suo amico, grande scrittore Mario Rigoni Stern, la scomparsa del quale si seppe due giorni dopo che fu sepolto». Ha conosciuto la notorietà e i salotti, il vecchio uomo di Erto, ma decide di ritirarsi, è tempo di «liberarsi della scena, del palcoscenico, della recita». Torna la memoria delle grandi difficoltà, tuttavia elogia quei giorni quando la miseria creava unità e una certa serenità. Com'era la vita nella valle prima della notte maledetta, mentre oggi «non c'è voce più forte del silenzio dei morti».
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Il Gazzettino