Il coreografo e performer D'Agostin tra i big a 35 anni: «Danza, desiderio famelico»

Marco D'Agostin
VALDOBBIADENE - Il suo nuovo lavoro, Best Regards, vuol essere una sorta di lettera-risarcimento «a chi non risponderà mai», ma che ha segnato profondamente il...

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VALDOBBIADENE - Il suo nuovo lavoro, Best Regards, vuol essere una sorta di lettera-risarcimento «a chi non risponderà mai», ma che ha segnato profondamente il suo modo di pensare la danza. Originario di Valdobbiadene, classe 1987, Marco D'Agostin è oggi uno dei coreografi e performer italiani più apprezzati anche a livello internazionale. Vincitore del Premio Ubu 2018 come Miglior Performer Under 35, per il triennio 2022/24 è artista associato del Piccolo Teatro di Milano. Dopo una formazione con maestri di fama internazionale (Yasmeen Godder, Nigel Charnock, Rosemary Butcher, Wendy Houstoun, Emio Greco), ha iniziato la propria carriera come interprete, danzando per collettivi e coreografi di primo piano. Al Comunale di Vicenza ha appena presentato il suo nuovo Best regards.


Come è iniziato il suo percorso nel mondo della danza?
«Sono uno di quei tipici bambini che amava danzare sin da piccolo ma che non è stato messo nelle condizioni di poterlo fare. Provengo da un piccolo paese della provincia veneta e negli anni 90 non era facile per un genitore immaginare un percorso legato alla danza per un figlio maschio. Tutti quegli anni, però, mi sono serviti per serbare e covare il desiderio, che è diventato famelico e che è potuto esplodere, a vent'anni, quando ho raggiunto Bologna per l'Università e ho cominciato a danzare».


È partito da un centro di provincia, è stato difficile emergere?
«Non parlerei di emersione. Il rapporto con la provincia ha segnato la dialettica del mio pensiero, e del mio cuore. È un rapporto di distanze e avvicinamenti. Sarebbe scontato dire che è stato difficile, da piccolo, essere messo in contatto con oggetti ed eventi culturali. Dunque da adulto è stato complesso soprattutto imparare a distinguere una certa sottocultura di cui ero imbevuto, e che però era costitutiva del mio immaginario e del mio stare nel mondo, da tutto quello che ancora c'era da scoprire».


Molti sacrifici?
«Molti meno di quelli fatti quando ero uno sciatore di fondo agonista».


A che punto si vede nel suo percorso di ricerca?
«La ricerca non segue un percorso lineare: non è cronologica, per così dire. Perciò è difficile parlare di punti. Sono di sicuro in una zona interessante, e cioè quella in cui sempre meno mi interessa pormi la questione dei confini tra le discipline (la danza, il teatro, il canto, la musica) e sempre più mi interessa osservare il fatto teatrale come un unicum la cui specificità sta nel rapporto sempre nuovo e sempre rivoluzionario che si può intrattenere con lo spettatore».


Come nasce il nuovo lavoro?
«Best Regards è un risarcimento, uno spettacolo/lettera che scrivo, con 10 anni di ritardo, a qualcuno che non risponderà mai: Nigel Charnock, formidabile performer e coreografo inglese che io ho conosciuto nel 2010 e che ha segnato in modo netto il mio modo di pensare la danza: Nigel rappresentava ai miei occhi la possibilità che in scena tutto potesse accadere ed esplodere. Non è però un lavoro biografico, né un omaggio, ma l'occasione per coinvolgere il pubblico in una sincera e commossa riflessione sulla responsabilità che abbiamo nei confronti dello spazio lasciato vuoto da qualcuno, e su come decidiamo di viverci».


Quali obiettivi ha ora?


«Non ragiono né lavoro per obiettivi. Gli unici obiettivi che hanno a che fare con il mio lavoro sono quelli collettivi, i cambiamenti sistematici che come comunità di lavoratori del teatro dobbiamo imporci di perseguire: protocolli d'intesa per modalità più sostenibili di produrre e spostare il lavoro, azioni anti-competitive, ripensamento delle dinamiche di potere, riformulazione dei tempi e delle durate del lavoro. Quello che riguarda solo me è legato ai desideri, alle illuminazioni, e questo non è mai il reame degli obiettivi».

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Il Gazzettino