Praticamente in contemporanea con la recente scomparsa a 95 anni di Dante Caneva - il più anziano dei “Piccoli maestri” raccontati da Luigi Meneghello - arriva...
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In “Pensare la libertà” (Ed. Marsilio, pp. 510, 12 euro) lo storico vicentino Renato Camurri ha selezionato gli scritti di Giuriolo confluiti in 47 quaderni, redatti tra il 1936 e il 1940, donati a suo tempo dalla famiglia all’Istituto Storico della Resistenza, contenenti alcune pagine di un diario personale, articoli, recensioni di libri, fogli sparsi, appunti. Ma quella che doveva essere una semplice introduzione si è via via trasformata in un’approfondita analisi (190 pagine) della formazione culturale del “maestro dei piccoli maestri”, una vera e propria indagine sul percorso finora sconosciuto di quello che fu «uno dei simboli di una generazione di intellettuali che negli anni più difficili della dittatura fascista ha saputo compiere un salto in avanti, marcando il progressivo distacco dalla retorica e dai riti del regime mussoliniano e dal servilismo dei loro coetanei e degli intellettuali, pagando per questo atteggiamento con l’isolamento e la solitudine».
Il fatto è che certamente Giuriolo è stato «l’incarnazione più perfetta che mai io abbia vista realizzata in un giovane della nostra generazione dell’unione di cultura e vita morale», come sostenne Bobbio (conosciuto a Padova): ma fino ad oggi - e nonostante la biografia del giornalista vicentino Antonio Trentin - egli era rimasto un «oggetto misterioso», «una meteora comparsa all’improvviso nel firmamento dell’antifascismo italiano», come dice Camurri - e dopo la Liberazione, «un fardello ingombrante - nel suo essere azionista e socialista libertario ed eretico - per le culture dominanti, cattolica e comunista», e per questo rapidamente rimosso dalla memoria collettiva e soggetto a fuorvianti classificazioni a posteriori.
Di Giuriolo Camurri sottolinea «la metamorfosi da giovane di provincia» fino all’emancipazione completa dalla cultura fascista, che lo portò a diventare (come Leone Ginzburg) uno dei pochi «visionari capaci di ipotecare il futuro», passando necessariamente per la condizione di «esule in patria» che coinvolse molti della sua generazione.
Meneghello vedeva in lui «un futuro punto di forza del radicalismo laico, una figura emblematica di quel partito moderno, colto, spregiudicato a cui volevamo affidare il rinnovamento dell’Italia». Ma c’è un aspetto nel rapporto fra Giuriolo e i suoi discepoli rimasto a lungo inespresso: la loro separazione definitiva avvenne traumaticamente nel corso di un rastrellamento nazi-fascista nel giugno del 1944 nella zona di Malga Fossetta, poi Giuriolo sarebbe stato ucciso nel dicembre successivo sull’Appennino tosco-emiliano, mentre copriva la ritirata dei suoi uomini. Il cruccio di Meneghello e compagni (confessato dallo scrittore solo nel 1976, in “Fiori italiani”) fu che il loro “comandante Toni” non avesse più detto una parola su di loro, che pure assieme a lui, sull’Altipiano, avevano vissuto l’età più esaltante della loro vita, un’esperienza capace di segnare la strada di una generazione verso la libertà. Naturalmente il volume non può affrontare questo tema, ma Camurri parte proprio dal suo ritratto di Giuriolo per auspicare una riscrittura del mito della Resistenza, liberato dalla retorica che l’ha incrostato finora, sulla scorta proprio della lezione dei Piccoli maestri. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino