Antonio, 92 anni, sopravvissuto ai lager: «Racconto quell'orrore»

Antonio Boldrin
VENEZIA - Sopravvissuto miracolosamente ai campi di concentramento nazisti, Antonio Boldrin, continua, da più di dieci lustri, a raccontarne gli orrori. La sua è una missione...

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VENEZIA - Sopravvissuto miracolosamente ai campi di concentramento nazisti, Antonio Boldrin, continua, da più di dieci lustri, a raccontarne gli orrori. La sua è una missione ed un servizio rivolto in modo particolare ai giovani. "El Toni de Sanpiero", come lo chiamano sulla Riviera, dato per morto ad Auschwitz, tra poche settimane compirà 92 anni, ma continua ad andare a parlare nelle scuole, nelle fabbriche, anche in altre regioni, come la Sardegna. «Occorre tenere vivo il ricordo - dice - Non dobbiamo e non possiamo dimenticare quello che ha patito chi è stato rinchiuso nei campi di sterminio. è stata raccontata nel libro di Silvia Muzzati «Il coraggio di ricordare.» La sua storia è stata raccontata nel libro di Silvia Muzzati "Il coraggio di ricordare".




Può ricordare qualche episodio?

«Non dimenticherò mai quello che mi disse in una fredda mattina di gennaio un grande scrittore: "Caro Antonio, per noi oramai è finita. Adesso, prima di ucciderci, ci infliggono non solo sofferenze fisiche, ma anche psicologiche e morali; per noi è finita: non sopravviveremo a questo inferno"». A dialogare nel campo di concentramento di Birkenau - correva l’anno 1941 - erano Primo Levi, autore di "Se questo è un uomo" e proprio "el Toni de Stra".



Ma eravate davvero amici?

«La nostra era un'amicizia fraterna, nata in un ambiente spaventoso. La prima volta che ci siamo incontrati c'erano anche Liliana Segre e Goti Bauer. Tutti e quattro eravamo impegnati a togliere le sbavature a migliaia di bossoli appena stampati. Nonostante il suo giustificato pessimismo, a salvare Primo fu... la varicella! Infatti era stato inserito in una lista di ebrei che avrebbe dovuto compiere quella che era considerata come "la marcia della morte": il trasferimento da Birkenau ad un altro campo. Due giorni prima della partenza però, "grazie" alla malattia, fu trasferito in una specie di lazzaretto. Nel corso del tragitto i tedeschi, come facevano sempre, si divertirono a sparare nel mucchio coi mitra e le pistole».



Vi siete incontrati anche dopo la liberazione dal lager?

«Si, sono andato a trovarlo a Milano. Lavorava come chimico in una fabbrica di colori. Mi raccontò di aver intercettato, per motivi di lavoro, un’ordinazione firmata dal comandante che a Birkenau lo umiliava in continuazione! Seguì una telefonata e il mio amico, che era buono, gli propose un incontro. Muller gli disse che non vedeva l'ora di vederlo per spiegargli, ma qualche giorno dopo si suicidò».



Quali erano i suoi compiti nel campo?

«Compiti disumani: facevo parte del sonderkommando, gruppi di 30 persone adibiti alle camere a gas. Noi sapevamo che poi ci avrebbero eliminati, ma gli altri prigionieri non dovevano sapere! Tagliavamo i capelli e depilavamo donne e uomini prima che entrassero nelle camere a gas. Poi, dovevamo caricare i poveri resti su dei carrelli per portarli ai forni crematori. Prima, però, dovevamo verificare se qualcuno aveva dei denti d'oro. L'operazione era "facilitata" dal fatto che chi moriva di gas aveva la bocca spalancata, in cerca dell'aria».



Come riuscì a salvarsi?


«Un mattino mi portarono con gli altri compagni del sonderkommando a tre chilometri da Birkenau e ci misero la corda al collo: non respiravo più quando, che Iddio sia ringraziato, arrivò una prima avanguardia di Russi: ci liberarono e catturano i tedeschi. È stato davvero un miracolo!»

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Il Gazzettino