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PADOVA - C’è il sole ma anche il vento. Meglio indossare un foulard attorno al collo. Alla residenza di via Beato Pellegrino dell’Alta Vita Ira gli anziani ospiti si preparano a vedere i propri familiari in giardino. Il via alle visite senza il vetro è stato ieri. In giardino, seduti a un tavolo di plastica da esterno, abbastanza largo da mantenere anche più di un metro di distanza. Altri si incontrano in una grande sala all’interno. Le operatrici socio-sanitarie accompagnano i nonni sopravvissuti alla strage perpetrata dalla pandemia. Chi a braccetto, chi su una sedia a rotelle, fino al tavolo. E lì attendono i figli, i nipoti, i fratelli.
Alcuni sembrano spaesati di essere all’esterno, senza barriere. Ma nessun contatto è permesso. Guai ad abbracciare la propria mamma o il proprio nonno, il personale della struttura interviene subito. Non è cattiveria, è protezione, vaccinati o no la ferita di quanto accaduto nel corso di questo anno e mezzo è ancora aperta. L’immagine degli ospiti che morivano uno dopo l’altro colpiti dal coronavirus aleggia nella mente come uno spettro. La tensione resta, mascherata dall’emozione.
«Vorrei tanto abbracciarla ma so che non posso, che non si deve – dice Michela Marca, infermiera caposala della Terapia intensiva all’ospedale di Padova che ieri pomeriggio con il figlio Edoardo è andata a trovare la mamma, Udilla Dima – Abbiamo trascorso davvero un anno d’inferno. Mi manca tanto, davvero». «Vi manco?» Chiede la signora Udilla, 86 anni, con un grande sorriso che si intravede da sotto la mascherina. I suoi sguardi sono soprattutto per il nipote, cuore di nonna. È la prima volta che si vedono senza il vetro in mezzo. Gli occhi di entrambe le donne ogni tanto diventano lucidi e cercano di scherzare sulla situazione, di sdrammatizzare.
«Meglio senza vetro, è un po’ sorda e con il vetro non ci sentiva bene – racconta Michela – Dovevamo usare un telefonino con gli amplificatori, tutti quelli vicino sentivano i fatti nostri». Udilla, nome scelto dal padre inviato in Africa a combattere durante la seconda guerra mondiale e tradotto dal francese Odile, un papà che ha rivisto all’età di tre anni e che non ha riconosciuto perciò è scappata a nascondersi sotto al letto, viveva a pochi passi dal parcheggio Prandina, almeno fino al 18 marzo, quando è entrata all’Ira.
«Ho fatto la quarantena, sì, dieci giorni – dice – Mi trovo benissimo, le oss sono bravissime. Ho da poco festeggiato il compleanno, mi hanno fatto anche la festa. Ma mi manca la mia gattina, mi faceva tanta compagnia». I familiari restano circa una mezz’ora e poi lasciano il posto ad altri.
Silvana Pavan, 92 anni cresciuta nel quartiere San Lazzaro, nella sua elegantissima camicia bianca sta aspettando il figlio che riesce a vedere solo tre o quattro volte l’anno. «Ormai è un anno che non lo vedo – spiega – Non vedo l’ora che arrivi anche se sono abituata a incontrarlo poco.
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Il Gazzettino