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PADOVA «Una minuziosa ricerca sui temi della salute, delle malattie, delle cure e dei protagonisti della sanità padovana. E' scritto con amore, perché l'intensità della narrazione è pari a quella dell'attività professionale». Così descrive il libro El me Ospedale, lo scrittore Mario Sileno Klein, tra le righe della prefazione.
L'autore è Mario Galdiolo, 79 anni, ex infermiere dell'Azienda Ospedale Università di Padova. Il volume, edito dai Fratelli Corradin Editori, è formato da tre sezioni: lavorando s'impara, na spierada de salute e maestri in càtedra. Scritta completamente in dialetto veneto, l'opera dà uno spaccato della storia medico-assistenziale nella seconda metà del Novecento. Il tutto, con un punto di vista speciale.
Signor Galdiolo, quando ha iniziato a lavorare all'ospedale di Padova?
«Dopo le scuole dell'obbligo ed acquisita l'ammissione al terzo anno Geometri, nel 1967 ho frequentato il corso della Scuola infermieri all'ospedale di Padova. Il mio servizio inizia nel 1969, prima a Neurochirurgia e Ortopedia, poi a Urologia.
Quando ha pensato di scrivere un libro su via Giustiniani?
«Dal 1992 collaboro al mensile di cultura e tradizioni venete Quatro Ciàcoe, anche con il ruolo di fotografo di redazione. Ho sempre amato sia il lavoro d'infermiere che quello di scrittore. Dal 2007 i miei scritti in lingua italiana sono presenti nel trimestrale di Informazione e Cultura generale Magazine dei Fratelli Corradin editori. Tra scrittura e impaginazione, il libro è stato pubblicato in tre mesi».
Quali sono i temi principali?
«Dentro c'è un po' di tutto: si parla di malattie e di grandi medici del passato. Partendo dal fatto che solo scoltando se riva a capire e inparare, proseguendo tra le tante malatie e le so cure, per giungere alla preziosità dell'incontro con gli angeli custodi de la nostra salute, de ieri e de oncò. La lista dei personaggi è lunga, va dal professor Salvatore Pucciarelli al professor Remo Naccarato. Il libro ha molte illustrazioni, tra cui fotografie scattate ai medici dal sottoscritto».
Qualche aneddoto divertente?
«Ne ho uno con l'illustre chirurgo Cevese. Una notte il professore stava portando a termine un trapianto di rene e, visto che i miei colleghi erano in reparto, incuriosito sono andato a vedere l'intervento. Non appena si è conclusa l'operazione, sono corso dal padre del paziente ad avvisare. E' venuto fuori che la famiglia era di Tonezza del Cimone, in provincia di Vicenza, luogo d'origine del professor Cevese. Come ve ciameo? ha detto il professore, quella notte. Da lì è iniziata una divertente scenetta perché è emerso che Cevese e il fratello, da bambini, andavano spesso a giocare nella falegnameria di quella famiglia. Combinando qualche marachella. Il ricordo si è concluso con una confessione da parte del padre di famiglia. Non appena Cevese si è allontanato, mi ha detto: no go miga vuo coraio de dire che me ricordavo de verghe dà un calcio sul sedere».
Cosa è cambiato negli anni?
«Una volta giocavamo a calcio con i medici, ora c'è più distanza. Lo stesso vale con i pazienti. Mi capitava di sedermi accanto ai ricoverati e palare di ricette di verze o pollo, forse adesso i ritmi di lavoro non lo permettono».
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Il Gazzettino