Imprenditore veneziano accusato di frode prigioniero da 48 giorni in Sudan: diplomatici al lavoro

Imprenditore veneziano accusato di frode prigioniero da 48 giorni in Sudan: diplomatici al lavoro
VENEZIA - Da 48 giorni è prigioniero in un commissariato di polizia a Khartoum, in Sudan. Da quasi due mesi Marco (il cognome non lo scriviamo su precisa richiesta della...

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VENEZIA - Da 48 giorni è prigioniero in un commissariato di polizia a Khartoum, in Sudan. Da quasi due mesi Marco (il cognome non lo scriviamo su precisa richiesta della famiglia, che teme ripercussioni sull’esito della trattativa diplomatica), imprenditore veneziano di 46 anni, padre di tre figli, è rinchiuso in una cella 24 ore su 24, senza un letto, senza ora d’aria, in violazione a tutte le normative in materia di carcerazione e diritti umani. Il motivo? Il mandato d’arresto, ufficialmente, è per frode. Per la famiglia di Marco, però, il motivo è un altro, probabilmente legato anche alla precaria situazione politica del Paese. Per il padre dell’uomo, infatti, si tratterebbe di un «vero e proprio sequestro a scopo di estorsione». 



LA VICENDA
Il dramma di Marco inizia a marzo. La sua azienda è radicata in Sudan da almeno 25 anni: il padre, prima di lui, aveva portato qui un ramo della sua attività che produce trasformatori elettrici. Marco, che ora dirige l’impresa di famiglia al posto suo, aveva concluso da poco un contratto con un cliente per una grossa fornitura. Gli arriva, però, una comunicazione strana dal suo cliente: quei trasformatori avrebbero dei parametri elettrici diversi rispetto a quelli dichiarati nei propri certificati di collaudo. A Marco non risulta e vuole vederci chiaro, quindi prende in buona fede un aereo e vola a Khartoum per capire cosa stia succedendo. Al suo arrivo però si trova di fronte a una situazione a dir poco singolare: il suo cliente aveva infatti fatto analizzare la sua fornitura dai laboratori dell’azienda concorrente di Marco. L’imprenditore contesta il metodo, ovviamente, non essendoci il responso di un soggetto terzo e indipendente ma una contestazione da parte di qualcuno che potrebbe avere un forte interesse nello screditare i suoi prodotti. «In questo Paese - spiega il padre - chiunque anche per futili motivi ha la possibilità con una denuncia alla polizia di far finire in galera qualcuno». E va a finire proprio così: la società lo denuncia per frode e Marco viene messo agli arresti in albergo. Dopo alcuni giorni di prigionia cede e arriva a un compromesso: paga 400mila euro per essere liberato e per poter riavere il proprio passaporto. Sembra la fine di un incubo, ma è solo l’inizio: una volta in aeroporto la polizia lo arresta di nuovo e lo porta in cella in commissariato. 

«REGENI, REGENI, PAGA!»
Il “patteggiamento” avvenuto con il cliente, infatti, non era sufficiente per il suo finanziatore, un miliziano molto vicino alla famiglia di Mohamed Hamdan Dagalo (detto “Hemeti”), il generale protagonista del colpo di Stato del 2019 già accusato di crimini disumani durante la guerra in Darfur. Il finanziatore (con cui Marco non ha mai avuto a che fare prima durante la gestione dell’affare) pretende altri 700mila euro. Durante la prigionia, il 46enne avrebbe subito pressioni psicologiche enormi. I carcerieri, per indurlo a cedere e a pagare, gli avrebbero più volte urlato: «Regeni, Regeni, paga, paga!», un riferimento chiaro al caso del giovane Giulio Regeni, il dottorando italiano dell’Università di Cambridge rapito, torturato e ucciso al Cairo il 25 gennaio 2016. 

LE TRATTATIVE 

L’ambasciata è al lavoro, ma la famiglia adesso ha paura anche perché a Marco continuano a negare la discussione del ricorso della sua carcerazione. «L’esito del ricorso - continua il padre - contro questa ingiusta carcerazione da 48 giorni viene senza motivo continuamente rinviato, contro ogni logica democratica e civile. Lo stato di detenzione nel commissariato è inoltre una palese violazione dei diritti umani. I detenuti - continua l’uomo - sono segregati in cella 24 su 24 ore, dormono per terra, non esiste “ora d’aria” e la visita è consentita per soli 10 minuti in un separe’ in ingresso, seduti per terra. Sto parlando di un commissariato dove la permanenza dovrebbe essere limitata a pochi giorni, non di un carcere. Il tutto ad una temperatura in questi giorni di oltre 40 gradi». Non è finita, perché anche «il ricovero in ospedale, pur autorizzato dal procuratore», viene negato dal capo del commissariato «senza alcun giustificato motivo». «Ambasciatore e Farnesina - conclude il papà di Marco - stanno assistendo impotenti di fronte a queste palesi violazioni dei diritti civili, umani e democratici. Serve una scossa, mi auguro che le nostre istituzioni possano attivarsi quanto prima e riportare Marco a casa». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino