Concorrenza sleale con gli hashtag sui social: imprenditrice padovana ottiene il risarcimento

Nadia Marian, titolare di "Ellen Beauty Factory"
PADOVA - Anche un hashtag – il simbolo del cancelletto (#) associato a una o più parole chiave per facilitare le ricerche sui social network – può essere...

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PADOVA - Anche un hashtag – il simbolo del cancelletto (#) associato a una o più parole chiave per facilitare le ricerche sui social network – può essere legato a doppio filo a un marchio. Lo sa bene “Ellen Beauty Factory”, la fabbrica della bellezza che ha sede in via Luigi Cadorna 1 a Padova e in via dell’Annunciata 29 a Milano, che da un lato vende linee di prodotti per la cura della pelle e del corpo e dall’altro offre servizi estetici personalizzati. La titolare, l’imprenditrice padovana Nadia Marian, ha ricorso contro un’azienda competitor rivendicando i propri hashtag (#ellenbeautyfactory #ellenbeauty #ellenbeautyfactorypadova oltre alla parola chiave “Ellen Beauty”) impropriamente utilizzati sul web, ottenendo un rimborso per l’utilizzo senza consenso. Si parla di circa mille euro per ciascun termine associato.

IL CONTESTO

Il risultato, ottenuto dall’avvocata di origini padovane Alberta Antonucci, rappresenta un significativo passo avanti nella regolamentazione del mondo del social media marketing. «Dopo una negoziazione durata circa sei mesi – spiega l’avvocata fondatrice dell’azienda legale “On the Web Side” – la ditta concorrente ha dovuto ripulire i propri social e il sito, oltre a corrispondere un importo a titolo di risarcimento del danno. Ciò fa capire come stia acquisendo sempre più importanza il posizionamento sui social di un’attività commerciale nel mercato di riferimento. Il digital marketing è un settore vasto, in continua evoluzione e che necessita di regole. Ironicamente potremmo concludere questa vicenda dicendo: fatti gli #hashtag tuoi».

LA DINAMICA

Tutto inizia con l’amara scoperta di Nadia Marian. Lo scorso anno l’imprenditrice si rende conto che gli hashtag del suo marchio sono stati “rubati” per attrarre i click su un’altra piattaforma. «Un concorrente nel mondo del beauty, tramite l’utilizzo di Google Ads per la sponsorizzazione e l’indicizzazione del sito web, ha inserito come propria parola chiave il marchio “Ellen Beauty Factory” e tutte le parole composte – spiega Antonucci –. Quindi gli utenti del web che attraverso Google effettuavano la ricerca del sito Ellen Beauty si imbattevano, quale primo risultato della ricerca, nella pagina web del concorrente, che utilizzava impropriamente il marchio. La condotta di quest’ultimo, quindi, integrava una fattispecie di contraffazione di marchio oltre che un atto di concorrenza sleale inevitabilmente fonte di responsabilità ai sensi della normativa civile». 


Il rischio dunque era di creare confusione negli utenti online per spostare altrove la loro attenzione. «È una forma di contraffazione del marchio, in gergo si dice “Invisible trademark infringement” – aggiunge l’avvocata – in quanto l’utilizzo ingannevole dei cosiddetti metatag per l’indicizzazione del sito, contenenti un marchio altrui tra le parole chiave, crea un concreto rischio di confusione nel pubblico, nonché un concreto rischio di associazione tra i due marchi, inducendo il consumatore in errore sui prodotti e servizi come provenienti dal medesimo imprenditore. Questo tipo di condotta, inoltre, ha provocato una vanificazione degli investimenti economici per la pubblicizzazione del sito e dei prodotti Ellen Beauty, causando un ulteriore aggravio di spese. Un gesto che dunque si configura anche come concorrenza sleale perché non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino