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Furti nelle case, bande di borseggiatrici ben organizzate, orologi strappati dai polsi e collane dai colli. Venezia sembra essere diventata, dalla tranquilla città di una volta, una casbah irta di pericoli. L'urlo d'allarme "pickpocket" lanciato da una veneziana si è diffuso in tutto il mondo, mutuato anche sui campi di basket dell'Nba per indicare quando un giocatore "ruba" la palla a un altro. L'ultima vip ad essere stata "alleggerita", ad inizio estate, la ministra della Cultura del Brasile, Margareth Menezes, in visita alla Biennale.
Ma la domanda è: diventata o tornata? Perché nei tempi d'oro della Serenissima la situazione era tutt'altro che tranquilla. La città, allora popolosissima e gremita di gente, era percorsa in lungo e in largo da predatori tale e quale come oggi.
L'atteggiamento della Repubblica verso le bande organizzate che provenivano da fuori, i "Cìngani Erranti", è molto deciso e di progressiva durezza: dal 1549 al 1558 il periodo lasciato loro per abbandonare i confini del dominio della Repubblica passa da dieci giorni a tre e infine "immediate", sotto pena di "impune occidi", cioè di poter essere uccisi senza punizione dell'uccisore. Con pene durissime per i magistrati e rettori delle provincie che avessero trasgredito alle regole. Non basta: Stefano Piasentini, nel suo "Alla luce della luna" ci fa viaggiare nel mondo della malavita veneziana dal Trecento al Quattrocento. Tra cui figurano ben due borseggiatori monchi di una mano, Margherita "que fuit de Cragna" e Giovanni da Marano, quest'ultimo pure guercio e i pittoreschi soprannomi di molti sospetti: "Truffa", "Saccomanno", "Faina", "Spezzabandi", "Scansaforca", addirittura un "Bastardus et Manigoldus". Bella gente.
Si rubava alle fiere, alle feste, nella ressa di Piazza San Marco ma si rischiavano, almeno nel tre-quattrocento, pene tremende
Fustigazione, marchio, taglio del naso, delle labbra, di una mano, di un occhio, della lingua, il tutto assortito e con aggiunta o meno del bando.
Un secolo dopo, sparisce il sacro anello di San Marco dalla Scuola Grande di San Marco. Il 3 settembre 1574 un uomo ruba calici, croci, un gonfalone adorno d'argento, stoffe d'altare ma soprattutto l'anello. Scoperto due mesi dopo confessa: è Nadalin da Trento, operaio all'Arsenale. Aveva saccheggiato anche la Scuola di San Rocco, ma a San Tomà l'avevano beccato. L'anello era perso per sempre: Nadalin confesserà di averlo fuso e venduto l'oro per otto ducati e qualche spicciolo. Al ricettatore era andata miracolosamente male: "essendo stata la verga dall'orefice posta nella borsa, dopo ch'ebbe dato al ladro lo scambio, sparve in modo che né lui né altri la videro più".
Nadalin fu "posto sopra una piatta, et condotto per Canal Grando a Santa Croce," gli furono date"botte sei di tanaglia affocate." Infine in campo San Zanipolo davanti alla Schola gli fu tagliata la mano destra e appesa al collo, per finire tra le due colonne "appiccato et abbrusciato". Altro che i responsabili del furto di gioielli a San Marco, identificati ma tuttora in ottima salute.
Ultimo furto "d'autore" fu quello della soldataglia francese nel 1797: tra i gioielli del tesoro sparisce anche la "Zogia" il corno dogale, privato delle pietre preziose, l'oro fuso. Infine, un altro furto, meno noto ma ugualmente grave, fu quello perpetrato dall'Austria. Tra il 1805 e il 1838 furono inviate a Vienna 3700 tra filze e volumi dell'Archivio e della Marciana e 135 quadri dai depositi di Palazzo Ducale. Tra il 1864 e il 1866 furono depredati il Museo dell' Arsenale e la Sala dei Modelli; nel 1866 altri 114 quadri partirono, oltre ad altri documenti dall'Archivio di Stato. Molto, ma non tutto, fu recuperato. Di giustiziare i colpevoli, francesi o austriaci, ovviamente non se ne parlò. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino