Dieci giorni di lotta contro il fuoco "figlio" dello stesso incendio

Un Canadair in azione sull'incendio del Carso
GORIZIA - Da dieci giorni oltre mille persone stanno lottando contro il fuoco in Friuli Venezia Giulia. «Gli anziani che hanno il polso della situazione - commenta a denti...

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GORIZIA - Da dieci giorni oltre mille persone stanno lottando contro il fuoco in Friuli Venezia Giulia. «Gli anziani che hanno il polso della situazione - commenta a denti stretti l’assessore regionale alla Protezione civile, Riccardo Riccardi che tra una emergenza e l’altra non ha tempo neppure per respirare - mi dicono che non hanno mai visto una cosa del genere. Nessuno ricorda una distruzione come questa». Del resto basta fare un pò di conti per capire che stanno bruciando gran parte dei boschi più belli del Friuli e della Venezia Giulia. «Sembra impossibile - va avanti l’assessore - ma tra il Carso triestino, quello isontino che ha iniziato a bruciare ieri e le fiamme sopra Resia, sono andati persi circa 3mila 700 ettari di alberi e sottobosco. Una cosa incredibile. Noi stiamo lottando e continueremo a farlo con tutte le nostre forze, ma è veramente desolante vedere dall’alto la devastazione. Una ferita profonda all’intero territorio».


UNICA FIAMMA
Prima il Lisert, poi Savogna d’Isonzo. Dieci giorni di fuoco originati tutti da un unico incendio che ha “seminato” focolai e grazie al secco che ha fatto da detonatore si è immediatamente sparso. Già, sembra impossibile, ma tutto è partito dalle fiamme sul Carso triestino. Quell’incendio, infatti, ha continuato a bruciare e ancora oggi sta creando distruzione e cenere pur a decine e decine di chilometri. «Le dinamiche degli incendi boschivi - spiega Stefano Zanut, ingegnere dei vigili del fuoco di Pordenone - sono più o meno sempre le stesse. Quando scoppia un incendio come quello nella zona del Lisert a Trieste o del monte Raut in provincia di Pordenone non è sufficiente spegnerlo. Una volta che le fiamme non ci sono più, infatti, c’è da bonificare il terreno che resta comunque caldo, soprattutto in periodi come questo di grande siccità. Lo spegnimento minuto è fondamentale perché, altrimenti, le braci, anche piccole, volano con il vento e possono allontanarsi di parecchio e generare nuovi focolai. In presenza poi di un vento come la Bora questo è ancora più facile che accada. Braci, foglie semi bruciate o altri elementi caldi possono scatenare nuovi incendi favoriti dal fatto che il terreno è secco come tutto quello che intorno. Sino a quando una pioggia consistente non bagnerà gli alberi rimarrà sempre alto il rischio di altri focolai».


LA MANO DELL’UOMO
«Premetto che non ho partecipato agli interventi sul Carso, ma non credo che in questa fase, per quanto riguarda i nuovi incendi, si possa parlare di piromani. Molto più probabile che “elementi caldi” volati via abbiano fatto da innesco. Casomai c’è da capire come è partita la prima fiamma - spiega Zanut - ricordando sempre che almeno il 90 per cento degli incendi sono legati alla mano dell’uomo, sia in forma dolosa, chi incendia volutamente, sia per comportamenti irresponsabili, penso a una cicca spenta male o peggio gettata nel bosco o le braci di una grigliata a terra. Direi, inoltre, che l’autocombustione che pure esiste, ha percentuali veramente molto basse e si determina in condizioni particolari, così come le scintille del treno sono casi isolati. L’ultima ipotesi, se il fuoco parte in una zona boschiva impervia dove l’uomo non ci arriva, è che a colpire sia stato un fulmine».


I COMPORTAMENTI


«Devo aggiungere - conclude il vigile del fuoco - che manca una cultura della sicurezza funzionale a cambiare i comportamenti e c’è, invece, una fascia popolare irresponsabile. Mi spiace dirlo, ma purtroppo è così e c’è da fare ancora molta strada su questo fronte. Una cosa deve essere chiara: in momenti come questi con un secco incredibile, basta un piccolo cerino per fare un disastro. Se non si capiscono queste cose difficilmente potremo evitare quello che stiamo vedendo».

 

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Il Gazzettino