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VENEZIA - Da una parte un’esplosione di colori, di tracce, di grafici in un vero turbinio di significati arcaici, moderni e contemporanei. Segni generici, ma che raccolti su tela danno il senso della ricerca; dall’altra il buio, anzi il nero con qualche timido sprazzo di luce, ma fondamentalmente inquietante, oscuro, tra le profondità marine e quelle della vita in una ipotetica galassia lontana dove la luce c’è e non c’è. La Fondazione Pinault, tra Palazzo Grassi e Punta della Dogana “gioca” su questi due piatti della bilancia.
L’imprenditore bretone ha scelto per la sua “ammiraglia” espositiva di Palazzo Grassi, le opere di un gruppo di artisti internazionali. A fare da capofila all’esposizione, curata da Caroline Bourgeois è Julie Mehretu, astro nascente dell’arte contemporanea, etiope di origine, naturalizzata americana, che porta con sè non solo il background di una fuga dal Paese natale per scappare alla repressione politica, ma che fin dal suo approdo nel Nuovo Mondo, ha dialogato con la cultura popolare; con l’antagonismo in politica e con la denuncia delle repressioni (e delle guerre civili) vedi le riflessioni artistiche su Iraq e Siria e le tragedie di conflitti fratricidi.
IN COMUNITÀ
Con lei in mostra per la prima volta in Italia e in Europa, un gruppo di artisti come l’inglese Tacita Dean; gli americani David Hammons, Robin Coste Lewis, Paul Pfeiffer, l’iraniana-tedesca Nairy Baghranian, la pakistana Huma Bhabha e l’australiana Jessica Rankin, già moglie della Mehretu. «Fin da quando ero giovane - ha detto Mehretu - fare arte e amicizia con artisti, poeti, romanzieri, cineasti e attivisti è sempre stato fondamentale per me e per il mondo in cui vivo. È così emerso un lavoro di comunità fatto di amici stretti». Ed ecco quindi un percorso, forse un po’ ripetitivo, ma che non smentisce la curiosità del visitatore che viene irretito dalle evocazioni, dalle sfide e dai messaggi come “Chimera”; “Heaven than air”; “Hineni” (Eccomi qui in ebraico); “Slouching towards Bethlehem”; “Among the Multitude”. Opere che raccontano un itinerario artistico, ma soprattutto un messaggio offerto alla società/comunità. Che sia del Nord e/o del Sud del mondo. Dice Bruno Racine, direttore e Ad di Palazzo Grassi: «Spaziando tra due decenni - ha spiegato - la mostra testimonia la continuità, ma anche l’incessante rinnovamento, di una pratica riconoscibile per la sua fedeltà all’astrazione. Lavori che, idealmente, si avvicinano a grandi maestri come Sigmar Polke con il suo segno astratto o addirittura a Jackson Pollock e all’«action painting». Ma con qualcosa in più: l’aderenza ad eventi contemporanei dolorosi come la guerra in Siria; le peregrinazioni dei migranti; la denuncia del suprematismo. La mostra sarà aperta dal 17 marzo fino al 6 gennaio 2025.
E se, come detto, la riflessione si fa globale (o forse meglio glocal), tutt’altra cosa invece l’esposizione allestita a Punta Della Dogana.
LA SIRENA
Infine l’ultima tranche di un itinerario complesso tra Palazzo Grassi e Punta della Dogana riguarda il Teatrino di Palazzo Grassi dove la Fondazione ha installato un maxischermo per “Song to the Siren” dell’artista belga Edith Dekyndt che ha filmato una giovane donna sdraiata tra le acque della laguna di Venezia mentre con un panno bianco pulisce, (o meglio accarezza), il monumento alla Partigiana realizzato nel 1969 dallo scultore Augusto Murer su basamento di Carlo Scarpa che si trova sulla riva ai Giardini di Castello, a pochi passi dall’ingresso dei padiglioni della Biennale. Fino al 17 marzo e successivamente dal 15 al 22 aprile.
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Il Gazzettino