Le "Baruffe" di Battistelli: «La mia sfida con la lingua dei pescatori» Martedì diretta streaming dalla Fenice sul gazzettino.it

Giorgio Battistelli
VENEZIA - La nuova opera di Giorgio Battistelli, Le baruffe, andrà in scena in prima esecuzione assoluta martedì 22 febbraio al Teatro La Fenice. Un lavoro...

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VENEZIA - La nuova opera di Giorgio Battistelli, Le baruffe, andrà in scena in prima esecuzione assoluta martedì 22 febbraio al Teatro La Fenice. Un lavoro commissionato dal sovrintendente Fortunato Ortombina per celebrare i sessant'anni della casa editrice Marsilio che a Carlo Goldoni ha dedicato una particolare attenzione. Leone d'oro alla carriera alla Biennale 2022 e vincitore del Premio Abbiati nel 2018 con il Riccardo III allestito alla Fenice, Battistelli per il nuovo lavoro si è ispirato alle Baruffe chiozzotte.

Maestro Battistelli, perché proprio questo titolo di Goldoni?
«La scelta è avvenuta parlandone con Damiano Michieletto, il regista che con me ha curato anche il libretto. Volevamo portare in scena una collettività, in questo caso quella dei pescatori di Chioggia, e dar risalto anche alla loro lingua».

La sfida del dialetto non la preoccupava?
«È un rischio calcolato. Già Wolf-Ferrari e Malipiero accostandosi a Goldoni hanno cercato di evitare il dialetto. Per me è stato invece uno stimolo per salvare un'identità periferica, locale e creare qualcosa di contemporaneo e sperimentale».

In che senso?
«Per rendere le inflessioni della lingua di Chioggia ho scritto le parti vocali più complesse di tutta la mia produzione operistica. Ci sono glissati, legature di portamento, sfumature timbriche che rendono alquanto difficile la scrittura vocale. Per un attore, recitare il testo sarebbe certamente più facile. Per i cantanti il linguaggio musicale è ricco di alterazioni, con intervalli di nona o undicesima proprio per avvicinarmi alla cadenza chioggiotta caratterizzata da una grande estensione. I soprani, per esempio, arrivano a note molto acute».

Non vi è alcun richiamo settecentesco?
«No, non ci sono la trasparenza e la leggerezza del Settecento. Lo sguardo è mitteleuropeo e il taglio espressionista, denso, brechtiano. La distanza da Goldoni è temporale, stilistica, da cortocircuito. Certo, qua e là ci sono frammenti melodici per caratterizzare alcuni personaggi, non mancano arie e recitativi, ma anche uno Sprechgesang molto enfatico. Anche quando sembra che i cantanti stiano recitando, tutto è metricamente controllato e intonato. Solo nel finale vi è un tema popolare: per il matrimonio appare una melodia scanzonata, felliniana per l'intervento della tromba».

C'è anche il coro?
«Sì. Pur essendo un elemento estraneo a Goldoni, in accordo con Michieletto ho inserito il coro all'inizio e alla fine. Canta sia all'interno sia in scena e naturalmente rappresenta la collettività chioggiotta in seno alla quale si sviluppano le baruffe. E come accade anche oggi, non si capisce nemmeno come tutti abbiano potuto litigare attorno alla cosa più futile».

Difficoltà per la stesura del libretto a quattro mani?


«Con Michieletto ci siamo accordati per i tagli e per aggiustare quadri e scene. Naturalmente, ci siamo confrontati sul ritmo drammaturgico e quello della parola cantata che dilata i tempi. Ma siamo sicuri di non aver tradito Goldoni e le parole sono esattamente le sue».
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Il Gazzettino