Feliciano Benvenuti, lezione sempre viva di un Doge della cultura

Feliciano Benvenuti
VENEZIA - Gli avevano attribuito così tante etichette di uomo di potere - da ”ultimo Doge a Doge della cultura” – che lui, visibilmente non se ne...

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VENEZIA - Gli avevano attribuito così tante etichette di uomo di potere - da ”ultimo Doge a Doge della cultura” – che lui, visibilmente non se ne dava cura. Anzi. Quando nel 1992 venne nominato “veneziano dell’anno” ringraziò tutti ricordando come “all’Italia manca ancora un’indicazione di rotta”. Incredibilmente - ma forse è più corrette dire “ovviamente” - adesso a 100 anni dalla nascita di Feliciano Benvenuti (Padova, 26 gennaio 1916-Padova, 16 luglio 1999) rileggere le sue intuizioni e scoprire la maestosità del suo percorso culturale rende ancora più ampia la distanza tra il pensiero di un Grande Veneziano e l’attualità, sempre più soffocata da mediocrità.

«Quello che pochi hanno conosciuto – spiega l’avvocato Ivone Cacciavillani, - era la “sovranità” di questo uomo; che mi considerava un amico. Un doge? Sì, ma che si imponeva senza essere invadente, faceva quello che il suo stile gli indicava». Vero. Perché perfino Benvenuti ammetteva : «Il potere non mi ha mai sedotto, ai vari incarichi io sono stato chiamato, non ho mai chiesto nulla».

Un rosario di cariche per lui - uomo che affondò due volte con la nave della Marina e finì prigioniero dei tedeschi in Polonia, Germania e Olanda : quasi dieci anni rettore a Ca’ Foscari (docente di diritto amministrativo), presidente dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere d Arti, di Palazzo Grassi, dell’Istituto Federale della Casse di Risparmio, del Banco di San Marco, del Cda della Banca Cattolica del Veneto, membro del Cda della Rai che lasciò dopo un anno. «Mi dimetto - spiegò - non annuncio dimissioni. E nemmeno le scrivo». Non aveva accettato poi la candidatura a sindaco di Venezia, che la Dc gli chiese negli anni ’90, perché non poteva scegliersi gli assessori. Rammenta Cacciavillani: «Era solito dire a chi chiedeva collaborazione: ‘Io ci sono , se non avete di meglio”». 
E del ruolo di procuratore di San Marco coperto per anni diceva. “L’impegno che forse ho più amato per la mia collocazione cattolica“. «Un pensiero mai stanco il suo – spiega Ettore Vio, fino a poche settimana fa proto della Basilica di san Marco – Maestro di vita, luminoso, lucido, esigente, generoso, buono”.
Vittore Branca, uno dei più grandi studiosi dell’Umanesimo dello scorso secolo ricordò più volte come Benvenuti “credeva nel diritto, quello che aveva al primo posto l’uomo». 
«Possedeva il genio di chi sapeva collegare il presente e il futuro nelle istituzioni, col meglio del passato – dice Mario Bertolissi, costituzionalista – Dava senso compiuto alle norme anche quando i legislatori le scrivevano in modo “impazzito”. La sua eredità? Non l’ha ancora raccolta nessun».

Così è quasi dimenticato il “testamento giuridico “ di Benvenuti sui poteri locali; «le Regioni imparino a meritarsi il loro potere” scriveva nel 1974. Sui comuni 40 anni fa diceva che “un comune è morto se si guarda al suo confine geografico, che non significa nulla. Il Comune vive per le funzioni di servizio ai cittadini». E per Venezia insisteva: serve un «Comune dei comuni della laguna»; idea più avanzata della città metropolitana


«Vittore Branca , Feliciano Benvenuti, Bruno Visentini, e prima Trentin, Paladin, Carnelutti e altri – conclude Bertolissi - avevano permesso al Nordest di diventare area del “primato culturale” , terra pilota dello sviluppo, di umanesimo, cultura, economia, impresa, politica». Disincantato, civilissimo, il più laico dei cattolici, umanista raffinato Benvenuti ha lasciato lezioni vivissime: «La cultura – scriveva - è lavoro che produce effetti a distanza. Venezia deve ripensare al mecenatismo, quello nato da mercanti e banchieri. Il rapporto tra impresa arte e cultura deve segnare il nostro tempo».  Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino