Consulta, permessi premio ai mafiosi. L'ex boss detenuto a Padova può chiedere i primi benefici

Giuseppe Di Matteo, il ragazzino che venne sequestrato, strangolato e sciolto nell'acido perché figlio del pentito Santino.
PADOVA - Proprio nelle ore in cui la Consulta era riunita per decidere sui permessi premio per i mafiosi all'ergastolo, è rimbalzata in Veneto una sentenza della...

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PADOVA - Proprio nelle ore in cui la Consulta era riunita per decidere sui permessi premio per i mafiosi all'ergastolo, è rimbalzata in Veneto una sentenza della Cassazione che potrebbe costituire un campo di applicazione del nuovo principio costituzionale. Si tratta del verdetto che, confermando il pronunciamento del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, sancisce l'impossibilità della collaborazione con la giustizia da parte di Agostino Lentini, spianandogli così la strada alla richiesta di benefìci penitenziari. Sul 56enne trapanese, recluso a Padova, gravano dieci sentenze di condanna, fra cui quella per la partecipazione all'assassinio di Giuseppe Di Matteo, il ragazzino che venne sequestrato, strangolato e sciolto nell'acido perché figlio del pentito Santino. Arrestato il 21 ottobre 1995 e da allora detenuto, fino al 2017 in regime di carcere duro, Lentini sta espiando un provvedimento di cumulo. Le sentenze rilevanti per la decisione sul suo futuro, relative cioè ai cosiddetti reati ostativi, sono state emesse a Palermo dalla Corte di Assise nel 1999 e dalla Corte di Assise di Appello nel 2004 e  nel 2006. La norma sull'ammissione al lavoro esterno, ai permessi premio e alle misure alternative alla detenzione prevede innanzi tutto che il detenuto collabori con la giustizia o, al contrario, non possa farlo. Quest'ultima opzione è quella decisa dai giudici della Sorveglianza.


Per il concorso al terribile omicidio del piccolo Di Matteo, «per avere posto a disposizione un proprio immobile come prigione dell'ostaggio», secondo il Tribunale «ogni fatto era stato integralmente accertato». Per la collaborazione ad altri efferati delitti commessi nel corso di una guerra di mafia, «facendo da custode delle armi ma partecipando anche materialmente a fatti di sangue», i magistrati hanno ritenuto che «non residuava più alcuno spazio collaborativo». Anche per la fine di Francesco Reda, vittima della lupara bianca, «era stato accertato ogni elemento». Dunque «la collaborazione con la giustizia non era più possibile».
IL RICORSO
La Procura Generale aveva fatto ricorso in Cassazione, sostenendo che la Sorveglianza «non aveva valutato in alcun modo la sussistenza o meno di collegamenti con la criminalità organizzata, che era invece un presupposto per il superamento del carattere ostativo del delitto». Un secondo rilievo riguardava poi il fatto che «nei processi esaminati le prove erano consistite in dichiarazioni di collaboratori di giustizia e non in risultati tecnico-scientifici, per cui non era sostenibile che nulla più poteva accertarsi».

Entrambe le argomentazioni sono però state rigettate dalla Suprema Corte, secondo cui la valutazione sull'attualità di legami con la mafia spetterà alla Sorveglianza nel momento in cui Lentini chiederà il beneficio, cosa che potrà fare visto che è stata accertata l'impossibilità della sua collaborazione. Quanto alla valenza delle dichiarazioni dei pentiti rispetto a quella dei riscontri tecnico-scientifici, la Cassazione ricorda che le norme «non contemplano una sorta di gerarchia tra differenti tipologie di prove».
A.Pe.
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Il Gazzettino