PADOVA - Proprio nelle ore in cui la Consulta era riunita per decidere sui permessi premio per i mafiosi all'ergastolo, è rimbalzata in Veneto una sentenza della...
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Per il concorso al terribile omicidio del piccolo Di Matteo, «per avere posto a disposizione un proprio immobile come prigione dell'ostaggio», secondo il Tribunale «ogni fatto era stato integralmente accertato». Per la collaborazione ad altri efferati delitti commessi nel corso di una guerra di mafia, «facendo da custode delle armi ma partecipando anche materialmente a fatti di sangue», i magistrati hanno ritenuto che «non residuava più alcuno spazio collaborativo». Anche per la fine di Francesco Reda, vittima della lupara bianca, «era stato accertato ogni elemento». Dunque «la collaborazione con la giustizia non era più possibile».
IL RICORSO
La Procura Generale aveva fatto ricorso in Cassazione, sostenendo che la Sorveglianza «non aveva valutato in alcun modo la sussistenza o meno di collegamenti con la criminalità organizzata, che era invece un presupposto per il superamento del carattere ostativo del delitto». Un secondo rilievo riguardava poi il fatto che «nei processi esaminati le prove erano consistite in dichiarazioni di collaboratori di giustizia e non in risultati tecnico-scientifici, per cui non era sostenibile che nulla più poteva accertarsi».
Entrambe le argomentazioni sono però state rigettate dalla Suprema Corte, secondo cui la valutazione sull'attualità di legami con la mafia spetterà alla Sorveglianza nel momento in cui Lentini chiederà il beneficio, cosa che potrà fare visto che è stata accertata l'impossibilità della sua collaborazione. Quanto alla valenza delle dichiarazioni dei pentiti rispetto a quella dei riscontri tecnico-scientifici, la Cassazione ricorda che le norme «non contemplano una sorta di gerarchia tra differenti tipologie di prove».
A.Pe.
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Il Gazzettino