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MESTRE (VENEZIA) - Alla fine di una battaglia legale durata diciassette anni, ha avuto ragione lei, una donna di Mestre che dal 2006 convive con il virus dell'epatite C. Il suo è uno dei primi casi in Italia in cui la malattia contratta durante una seduta di dialisi è equiparata a una stessa malattia ereditata da una trasfusione con sangue infetto. L'ultimo capitolo l'hanno scritto i giudici del Tar del Veneto blindando quel maxi-risarcimento prima negato e poi concesso, ma mai versato dal ministero della Salute che ora dovrà pagare 160mila euro - come arretrati - e 800 euro al mese come quota fissa.
Epatite C, il contagio
Nel 2006 la donna veniva ricoverata in ospedale a Catania per un'insufficienza renale e durante la degenza era sottoposta a un trattamento con trasfusioni di sangue ed emodialisi. Gli esami di ingresso nella struttura siciliana - poi analizzati durante gli anni di udienze nei vari tribunali - certificavano come la donna fosse negativa al virus dell'epatite C. Qualche mese dopo le dimissioni, e cominciando ad accusare disturbi di digestione e al fegato, la paziente dava il via a una serie di accertamenti clinici che si chiudevano - a sorpresa - con la diagnosi di epatite C. Il sospetto della donna nel ricercare la causa del contagio, ricadeva proprio sul periodo passato in ospedale a Catania e alle continue sedute di dialisi e trasfusioni. Per ottenere il risarcimento che le era stato negato in via amministrativa dal nosocomio catanese, la donna si era rivolta agli avvocati mestrini Marta Guarda e Massimo Dragone con l'obiettivo di farsi giustizia in tribunale.
La consulenza tecnica disposta dal giudice civile di Venezia aveva accertato che il contagio da epatite C non poteva però essere attribuito alle trasfusioni di sangue: tutti i donatori erano infatti negativi al virus. La causa, quindi, era nelle sedute di dialisi con l'ipotesi principale che a non essere stata sterilizzata in modo corretto era stata la macchina della dialisi, dopo la seduta di un paziente con epatite C.
Sentenza impugnata di fronte alla Cassazione da parte del ministero della Salute. Anche i Supremi giudici avevano però sposato l'impianto presentato dai legali della donna e già risultato vincente in Appello a Venezia con la condanna del ministero. La sentenza è quindi diventata definitiva stabilendo - per la prima volta - il principio secondo cui il rischio tutelato dalla legge per cui viene previsto l'indennizzo in caso di malattie contratte durante una trasfusione, comprende anche l'ipotesi in cui il contagio sia derivato dalla contaminazione del sangue proprio del contagiato durante la seduta di dialisi a causa delle sostanze ematiche lasciate da un altro paziente.
Tar del Veneto
Non è stata però la Cassazione a chiudere la partita perché per ottenere i risarcimenti la paziente e i suoi avvocati si sono dovuti rivolgere al tribunale amministrativo del Veneto che - con giudizio di ottemperanza - ha condannato il ministero della Salute a corrispondere alla signora l'importo dovuto a titolo di arretrati, oltre interessi e rivalutazione e rimborsi, cioè 160mila euro, dando anche il via al pagamento dell'indennizzo periodico per tutta la vita della paziente, contagiata durante il ricovero a Catania. Una sentenza partita dalla causa e dal calvario di una donna mestrina, capace però adesso di fare scuola e aprire una strada anche per altre persone contagiate durante sedute che non sono solo di trasfusione. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino