A nordest il dialetto si parla meno, ma rimane sempre la lingua del cuore

A nordest il dialetto si parla meno, ma rimane sempre la lingua del cuore
Nordest ancora innamorato delle sue lingue locali: questa sembra essere l’indicazione principale che emerge dai dati analizzati da Demos e presentati oggi all’interno...

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Nordest ancora innamorato delle sue lingue locali: questa sembra essere l’indicazione principale che emerge dai dati analizzati da Demos e presentati oggi all’interno dell’Osservatorio sul Nordest del Gazzettino. L’affetto per il dialetto, infatti, è ampio e coinvolge l’86% dei rispondenti. Chi lo parla, poi, viene giudicato attaccato alle proprie origini (51%), alla mano (26%) o simpatico (14%). In quanti lo usano? Sette nordestini su dieci lo parlano in famiglia e con gli amici, mentre una minoranza (47%) si trova a parlare in dialetto anche sul luogo di lavoro.

«La parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua. Questo vale soprattutto per i nomi delle cose». Così Luigi Meneghello in “Libera Nos a Malo” raccontava il dialetto e metteva ben in evidenza il suo ruolo non solo e non tanto come mezzo di comunicazione, ma come vero e proprio “creatore di realtà”. Una realtà che, d’altra parte, riuniva le sue diverse componenti sociali proprio attraverso il dialetto dato che era parlato indistintamente e senza differenze culturali, di censo o professionali.
Deve essere per questo suo tratto riunificante delle comunità che il dialetto è resistito fino ad oggi e piace (molto o abbastanza) all’86% dei nordestini. L’amore per la lingua locale, inoltre, tende a salire tra le persone adulte (93%) o anziane (90%), ma anche tra i più giovani è piuttosto ampio e interessa più di tre intervistati su quattro. Come viene visto chi parla in dialetto? Attaccato alle proprie origini, soprattutto (51%), ma anche alla mano (26%) e simpatico (14%).
Tanto affetto, però, non sembra sostenere il dialetto che mostra invece dei segni di difficoltà. È soprattutto in ambito professionale che emergono i maggiori cambiamenti: nel 2001 era il 57% a usarlo in ambito lavorativo, mentre oggi la quota è scesa sotto la soglia della maggioranza assoluta, al 47%. Anche con gli amici registriamo un minore utilizzo: nello stesso arco di tempo, la percentuale è scesa dal 79 al 70%. Il luogo in cui il dialetto resiste meglio, dunque, sembra proprio essere la casa: la famiglia, infatti, è l’ambito in cui il tempo che passa ha meno scalfito il suo utilizzo. Se nel 2001 era il 74% dei nordestini a parlarlo in famiglia, oggi il valore si attesta intorno al 70%.
Quali settori sociali parlano dialetto in famiglia di più e quali di meno? Sono soprattutto le persone adulte (79%) o anziane (82%), oltre a chi è in possesso di un basso livello di istruzione (85%) e vive in realtà urbane più piccole (75%) ad utilizzare con maggior frequenza il dialetto tra le mura domestiche. Guardando alle categorie socio-professionali, invece, emerge che il dialetto è la “lingua degli affetti” per operai (76%) e imprenditori (83%), casalinghe e pensionati (83%). Al contrario, sono i giovani con meno di 34 anni (55-59%) e quanti sono in possesso di un diploma o una laurea (57%), coloro che vivono in comuni più grandi (58%) e i liberi professionisti (43%), gli studenti (54%), gli impiegati (57%) e i disoccupati (60%) a parlare meno spesso dialetto in famiglia.

I due profili mostrano delle distanze importanti e di cui tenere conto. Il rischio che si intravvede dai dati è che il tratto che ha consentito al dialetto di sopravvivere fino ad oggi, la sua trasversalità sociale, sia messa progressivamente in discussione: ma abbandonando quella parola “incavicchiata nelle cose”, come diceva Meneghello, distruggiamo la cosa stessa, perdendo al contempo molto di noi.
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Il Gazzettino