Quattro pescatori in pensione, sono gli ultimi custodi di Scano Boa celebrato da Gian Antonio Cibotto

I quattro pescatori in pensione rimasti a custodire Scano Boa e il suo casone
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PORTO TOLLE  - «Avvertenza: è inutile cercare sulla carta geografica le località nominate in questo libro (o tentare gratuite identificazioni dei personaggi). L’esattezza geografica non è che una illusione. Il delta padano, per esempio, non esiste. Lo stesso dicasi, a maggior ragione, per Scano Boa. Io lo so, ci sono vissuto». Così iniziava Gian Antonio Cibotto, scrittore e giornalista del Gazzettino, il libro da cui Renato Dall’Ara nel 1961 trasse l’omonimo film. Eppure la bellezza e l’unicità di Scano Boa va ben oltre la celebrità letteraria e cinematografica che lo ha trasformato in luogo iconico nel Delta. Su questo scanno, appena fuori dalla foce del Po di Pila e raggiungibile solo in barca, si trova un casone, fatto tutto in canna palustre tranne che per il camino in mattoni: l’ultimo baluardo di un’epopea di pescatori che non esistono più, ma che ci sono stati e basta sbarcare qui per rendersi conto di essere in un posto unico nel suo genere. 


CUSTODI DELLO SCANNO

Custodi di questo angolo di paradiso sono Ilido Zerbin, Leonardo Crepaldi, Giovanni Crepaldi e Riccardo Binati. Quattro pescatori in pensione, o forse sarebbe meglio dire quattro moschettieri del Delta che hanno adottato questo rifugio. «Chi si trovava in difficoltà si fermava qui quando non riusciva ad andare a casa» racconta Zerbin, che è risalito alla storia di questo luogo attraverso gli scritti di Cibotto. Sembra che quel casone fosse stato realizzato per la prima volta subito dopo la Seconda guerra mondiale per la pesca dello storione. Poi si è passati a quella dell’anguilla: «Si chiudeva la laguna con le reti e si lasciavano solo tre aperture: due ai lati e una al centro – racconta Zerbin –. Fino ai primi anni ’70 si è continuato a pescare anguille, poi sono sparite. Così con il mio gruppo di colleghi abbiamo cominciato a coltivare le cozze in Sacca di Scardovari, tutt’oggi i miei figli portano avanti il mestiere». 
Altri tempi, altro modo di lavorare e decisamente un’altra vita: «Mi ricordo del capanno di Scano Boa – prosegue ancora il pescatore –. Si stava lì da settembre fino a dicembre, un anno abbiamo vissuto qui anche in 12. Si mangiava pesce e pane, che si andava a comprare una volta alla settimana quando si tornava a casa». Cambia la pesca e dal ’75 a occuparsi del casone è un signore di Ferrara che dopo aver perso la figlia aveva trovato qui il suo rifugio, un po’ come Cibotto che andava a Scano Boa quando voleva stare solo. Questo fino agli anni ’80. «Lo andavo a trovare con la barchina – sottolinea Zerbin –. Poi quando sono diventato presidente della coop Delta Padano ho provato a valorizzarlo portando qui anche il presidente della Provincia. Di quel gruppo di persone siamo rimasti noi quattro che continuiamo ad occuparcene». Si arriva così al primo incendio nel 1999 e alla ricostruzione con il contributo di Delta Padano e Adriatico, poi il secondo incendio nel 2014 e il nuovo rifacimento grazie sempre al sostegno della Delta Padano. 

SITO STORICO 


Inizia lì il riconoscimento del luogo come sito storico che arriva nel 2015 e, in parallelo, nasce il Comitato per la ricostruzione e gestione del capanno che dal 2016 lo ha in gestione pagando un canone di 3mila euro annui per la concessione della spiaggia. «Tra due anni scade, vorremmo rinnovare ma chissà – dice preoccupato il capogruppo dei custodi di Scano Boa –. Andrebbe gestito come abbiamo sempre fatto noi, tutelandolo e rispettandolo. Magari portare qualche riunione importante qui con qualche assessore regionale che possa assaporare il Delta vero, valorizzarlo. La speranza è che il capanno rimanga e sia gestito con lo stesso amore con cui ce ne occupiamo, non vorremmo che questo luogo venisse invaso dai turisti». Come a dire: Scano Boa è per molti, ma non per tutti. 
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Il Gazzettino