Delitto Pamio, ricorso in Europa "Diritti umani violati"

Monica Busetto
 Il caso Monica Busetto finisce sul tavolo della Corte europea dei diritti dell’uomo. I legali dell’infermiera mestrina, condannata a 25 anni di carcere per...

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 Il caso Monica Busetto finisce sul tavolo della Corte europea dei diritti dell’uomo. I legali dell’infermiera mestrina, condannata a 25 anni di carcere per l’omicidio, nel dicembre del 2012, dell’anziana vicina di casa di via Vespucci, Lida Taffi Pamio, hanno formalizzato nei giorni scorsi il ricorso alla Cedu di Strasburgo. Una vicenda giudiziaria con molte ombre, quella della donna, che in quasi otto anni di processi (la sentenza è diventata definitiva l’8 gennaio 2020) ha visto un numero esagerato di colpi di scena. L’ultima parola della Cassazione, però, non è bastata a convincere alla resa i due avvocati della donna, Stefano Busetto e Alessandro Doglioni. L’ultima speranza, adesso, è affidata al tribunale europeo. 


I QUATTRO PUNTI 
I legali hanno basato il ricorso su quattro punti: il diritto dell’imputato alla presunzione d’innocenza, il diritto alla parità delle armi, l’arbitrarietà del trattamento sanzionatorio e la globalità di una serie di procedimenti (presunti) “viziati”. Partiamo con il primo: l’imputato deve poter essere messo in condizione di avere a disposizione gli stessi elementi dell’accusa. «Sono tanti gli elementi che ci hanno spinto a dire che questo principio è venuto meno - spiegano gli avvocati- uno su tutti quello che riguarda la famosa collanina: avevamo chiesto una perizia per verificare se la rottura fosse provocato da stress da strappo o da piegamento perché riposta in un portagioie. Il giudice però non ha mai ritenuto che servisse». La collanina è l’unica vera prova che ha incastrato Monica Busetto: quella catenina trovata nel portagioie dell’infermiera e su cui erano state riscontrate tracce di dna della vittima. La difesa, su questo, aveva sempre sostenuto che la quantità di materiale biologico riconducibile alla signora era talmente infinitesimale (3 picogrammi) da poter essere frutto di una contaminazione. E questo è il motivo del secondo punto: il diritto dell’imputato a essere presunto innocente. «Tutto il procedimento è partito dall’assunto che Monica era colpevole e che quindi doveva dimostrare la sua innocenza. La collanina? Ha dovuto cercare di dimostrare che era sua, ma l’accusa non ha mai dovuto dimostrare che fosse appartenuta alla vittima». Poi ci sono le “situazioni viziate”, che si riferiscono soprattutto all’altra protagonista della vicenda, Milly Lazzarini. La donna che diede la svolta al caso, ammettendo l’omicidio nel 2016, dopo essere stata arrestata per un secondo delitto di un’anziana, Francesca Vianello. In cinque interrogatori Milly Lazzarini ha fornito tre versioni diverse: «Sono stata io», «è stata Monica e io l’ho aiutata», «sono stata io e Monica mi ha aiutata». Secondo gli avvocati, i cambi di versione, senza mai richiedere l’attendibilità della donna, avevano portato a dei condizionamenti. Infine l’arbitrarietà del trattamento, che riguarda la gestione delle attenuanti negate per degli atteggiamenti, secondo i legali, «tenuti da Busetto quando non era imputata».
UN LIBRO SULLA VICENDA

Gli avvocati nella loro lotta non sono soli: in queste ultime settimane sta facendo scalpore sui social (e non solo) il “feuilleton” realizzato dal giornalista Massimiliano Cortivo e dal docente di Statistica per l’investigazione Lorenzo Brusattin, destinato a diventare un libro di 600 pagine. Ogni sabato un nuovo capitolo di questa tortuosa vicenda giudiziaria sulla piattaforma online Medium e sulla pagina Facebook «Lo Stato Italiano contro Monica Busetto» tra interrogatori, deposizioni, e la narrazione dell’iter processuale. Un lavoro coraggioso, quello della coppia, che si è messa contro il lavoro di tribunali, procura e squadra mobile che si basa su un assunto per loro incontestabile: l’infermiera mestrina è innocente. «È stata condannata a 25 anni per un omicidio che non ha commesso - scrivono i due - sarebbe stato costruttivo e onorevole ascoltare la procura di Venezia dire: “Ragazzi, abbiamo fatto una cazzata. Una bella grossa. Scusateci. Ci siamo incaponiti con la vicina dirimpettaia, che invece non c’entrava niente”. Per noi raccontare la storia di Monica un dovere. Crediamo infatti che sia completamente innocente e che la sua vicenda meriti più attenzione di quanta gliene sia stata data fino ad ora».  Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino