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PADOVA - Il primo atleta della storia deceduto per morte improvvisa è famosissimo. Si chiamava Filippide, arrivando di corsa da Maratona ebbe appena il tempo di gridare agli ateniesi "Abbiamo vinto", naturalmente in greco antico, poi si spense più in fretta di una stella cadente. Era il 12 settembre del 490 avanti Cristo, Filippide era un atleta allenato, un "emerodromo", colui che corre per un giorno intero. La morte lo ha fatto entrare nella leggenda e lo sport moderno gli ha dedicato la gara più lunga: la maratona. Le morti improvvise di atleti sono devastanti. Fino a poco tempo fa sono state inspiegabili. Sono tante, troppe. Così numerose che c'è perfino un santo "celeste protettore contro la morte improvvisa": Sant'Andrea d'Avellino, nel calendario occupa il 10 novembre. Proprio si spegne di colpo la luce. E il buio fa rumore soprattutto perché si tratta di ragazzi e la morte, che ancora nella nostra società resta un tabù, quando tocca i giovani fa chiudere porte e bocche. «Se una volta ai genitori dicevamo che non sapevamo dare una risposta, ora almeno in due casi su tre sappiamo dare la spiegazione», dice Cristina Basso, 59 anni, padovana di Cittadella, docente al Bo', uno dei massimi esperti al mondo in materia. Cardiologa e patologa, docente di anatomia patologica all'Università di Padova, dirige l'Unità operativa complessa di Patologia cardiovascolare dell'Azienda ospedaliera padovana. È al vertice della Società europea del settore. Tre anni fa ha ricevuto per le sue ricerche il più prestigioso premio mondiale di cardiologia, era la prima volta che veniva dato a un anatomopatologo. «Ma c'era il Covid e non si poteva viaggiare. Me lo hanno mandato. Mi sono risparmiata il viaggio in California a San Diego».
Da Cittadella a San Diego, una bella strada?
«Papà Pietro veniva da una famiglia contadina, una sorella era missionaria. Lui è stato l'unico a studiare, ha fatto per tutta la vita il medico di base. Mamma Anna Maria è vicentina, si erano incontrati casualmente in ospedale dove il nonno materno era ricoverato: un colpo di fulmine. Lei gli ha sempre rimproverato di averla portata dalla città a un paese. Siamo due fratelli, Pierluigi è direttore nazionale di corse ciclistiche e segue il Cittadella Calcio in serie B. Volevo iscrivermi a lettere, mio padre ha spinto per la medicina che mi ha presto affascinato. Prima mi sono specializzata in Cardiologia col professor Dalla Volta che teneva lezioni straordinarie. Poi anche in patologia, attratta dalla bravura del professor Gaetano Thiene».
Tra anatomia e cardiologia cosa ha scelto?
«L'anatomia, mentre a casa erano tutti convinti che io tornassi per fare il medico di base prendendo i pazienti di mio padre. Ma io volevo insegnare all'università e fare questa strana professione: l'anatomia patologica dedicata al sistema cardiovascolare, cuore e circolazione. Solo il Bo e l'ospedale universitario possono permettersi un centro di riferimento all'avanguardia come questo, indicato dalla Regione Veneto».
Quando cambia la sua vita?
«Cambia nel 1997, quando vengo assunta in ospedale, il primo stipendio. Cinque anni da ospedaliera e ne vado molto fiera.
Cosa è cambiato dagli anni '80?
«Abbiamo studiato più di mille casi di giovani sotto i 35 anni, il 40 per cento di questi eventi ha una base potenzialmente ereditaria: il difetto sta nel nostro Dna. Se identifico che in uno c'è questa malattia corro a vedere se in famiglia ci sono altri soggetti predisposti, portatori dello stesso difetto genetico. Salvi una vita con una diagnosi precoce, può bastare un farmaco adatto. Oggi parliamo di cardiomiopatia aritmogena, quella che uccide molti sportivi. Una malattia scoperta a Padova al tavolo autoptico: il professor Andrea Nava ha avuto l'intuizione di andare a cercare la famiglia di un giovane calciatore morto improvvisamente! Oggi abbiamo spalancato la porta dello screening precoce».
Lei si è occupata della morte di Piermario Morosini, il calciatore morto in campo a Pescara
«Ho seguito nel 2012 le analisi e le inchieste per la morte di Morosini che aveva 26 anni. Il defibrillatore in campo lo avrebbe salvato, c'era ma non è stato utilizzato subito. Sono malattie che vengono per sforzi intensi, ma anche per emozioni intense. Lo sforzo fisico si può evitare, l'emozione no. Però ci sono correttivi farmacologici».
Qual è il momento più difficile? E cos'è questa morte improvvisa?
«È anche quello che sempre mi turba e emoziona tantissimo: è quando incontro i genitori, vogliono sapere cosa è successo, non si danno una spiegazione della tragedia. Parliamo della morte di giovani. Ora abbiamo quasi sempre una risposta: una malattia l'abbiamo identificata. Dall'altra parte, se sono malattie ereditarie con la diagnosi precoce si può intervenire e dare assistenza. Molte mamme dedicano la loro esistenza a mettere defibrillatori nel territorio, trasformano un dolore insuperabile in qualcosa di costruttivo. Il defibrillatore è il salvavita per eccellenza, spegne la scarica elettrica. Bisogna prevenire, nell'età adolescenziale è bene fare l'elettrocardiogramma, esami del sangue, controllare pressione e colesterolo».
E quel premio internazionale vinto in tempo di Covid?
«Era legato a una ricerca fatta partendo da un'osservazione: la morte improvvisa quasi sempre colpisce i maschi, ci sono delle malattie però - una è il prolasso della valvola mitrale che stranamente prediligono il sesso femminile. Abbiamo esaminato per un decennio i casi di ragazze che morivano improvvisamente, abbiamo portato ai cardiologi i risultati su questa valvola malformata, la rivoluzione è arrivata con la risonanza magnetica che ha dato le conferme. Abbiamo pubblicato i dati che erano inediti nella ricerca cardiologica mondiale: "Il prolasso della valvola mitrale aritmico" è diventato il testo più citato, la conferma dell'eccellenza della ricerca padovana».
C'è qualcosa che le piacerebbe fare?
«Il mio sfogo è la piscina, se non nuoto non mi ricarico. Poi le camminate in montagna che mi rigenerano. Il rimpianto è la musica: a casa c'è sempre stato il pianoforte, suonava la mamma, suonava il nonno; io da ribelle ho fatto il flauto traverso, ma l'ho risposto nell'astuccio negli anni del liceo. Mi piacerebbe riprendere». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino