Il padre non la riconobbe e finì in orfanotrofio: ora la Corte di Cassazione le dà ragione

La Corte di Cassazione di Roma
ROVIGO - Un padre che si è negato ed un riconoscimento arrivato per via giudiziaria che ha regalato soddisfazione a Mara Lazzarin, dipendente del Comune di Rovigo, dopo...

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ROVIGO - Un padre che si è negato ed un riconoscimento arrivato per via giudiziaria che ha regalato soddisfazione a Mara Lazzarin, dipendente del Comune di Rovigo, dopo anni di difficoltà e battaglie. È lei a raccontare la propria storia, dalla sua nascita fino alla sentenza pronunciata l’altro giorno dalla Prima sezione della Corte di Cassazione. Il padre si è spento a marzo e si era sempre rifiutato di sottoporsi al test del Dna, ma la legge prevede che in questi casi si possa arrivare a dimostrare la paternità anche utilizzando altre fonti di prova.



IL RACCONTO

Come, appunto, in questo caso. «Sono nata a Padova nel 1957 - racconta la signora Mara - concepita da una relazione sentimentale che mia madre, Amelia, aveva intrattenuto con un giovane padovano, all’epoca in servizio di leva, che aveva promesso di riconoscermi come figlia e costituire con mamma una famiglia non appena congedato. Promessa non mantenuta. Date le modestissime condizioni familiari, la mia infanzia e la prima adolescenza le ho trascorse in un orfanotrofio a Padova. Nel 1969 sono stata adottata, con adozione ordinaria non legittimante, da una coppia di coniugi padovani, che mi hanno accolto all’interno della famiglia senza mai manifestarmi l’affetto e l’amore genitoriale di cui ogni figlio ha bisogno. Con mia mamma naturale ho sempre mantenuto un contatto ed è stata lei a rivelarmi il nome e la residenza del fidanzato che l’aveva messa incinta, precisandomi che lo aveva sempre informato e della mia nascita e delle difficoltà economiche che incontrava nel farmi crescere, tanto da dovermi affidarmi alle “cure” dell’Orfanatrofio Ognissanti di Padova».

IGNORATA

Il padre, spiega ancora Mara, «ha preferito costituire una famiglia con un’altra donna dalla quale ha avuto due figli, che, oggi, dopo la sentenza definitiva della Corte di Cassazione, sono miei fratellastri. Nel 1986 ho cercato un contatto diretto con mio padre rivelando la mia identità, ma venni allontanata in malo modo dal suo storico negozio di ottica nella città del Santo». Un dolore che si è aggiunto a dolore. Certo non pensava di ricevere in un semplice incontro quanto le era stato negato negli anni precedenti, non tanto da punto di vista economico, quanto affettivo. Ma, almeno, sperava avrebbe potuto avere la possibilità di conoscere quell’uomo e di avere qualche risposta alle tante domande che le erano rimaste dentro fino ad allora. Invece, niente di tutto ciò.

LA GIUSTIZIA



Da qui l’idea di procedere giudizialmente, anche se più di un avvocato non ha accettato l’incarico. Fino a quando, nel 2008, non ha incontrato l’avvocato Palmiro Tosini, al quale la donna rivolge «tutta la gratitudine per non aver mai ceduto, neppure di fronte ad una agguerrita difesa rappresentata anche da docenti universitari cui si è affidato mio padre per non accettarmi come figlia. Solo la volontà e la determinazione mia e dell’avvocato che mi ha assistito in 15 anni di contenzioso, due volte in Tribunale, due volte in Corte d’Appello di Venezia, due volte avanti la Corte di Cassazione, hanno, alla fine prevalso su colui che non mi ha mai voluto riconoscere come figlia naturale. L’amarezza e lo scoramento, sopportati in questi anni sono enormi e nulla potrà ripagare tanta sofferenza patita nell’arco di una intera vita».
 

 

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Il Gazzettino