Coronavirus. Il primario dell'ospedale di Schiavonia: «Quel male sconosciuto, poi la valanga»

Coronavirus. Il primario dell'ospedale di Schiavonia: «Quel male sconosciuto, poi la valanga»
Coronavirus Schiavonia, parla il primario Fabio Baratto. Camici, sovracamici, calzari, visiere e un doppio paio di guanti....

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Coronavirus Schiavonia, parla il primario Fabio Baratto.



Camici, sovracamici, calzari, visiere e un doppio paio di guanti. Medici e infermieri della Terapia intensiva di Schiavonia sembrano astronauti. Eroi vestiti di bianco e azzurro, impegnati nella missione più difficile. Nei primi giorni tutti scrivevano il proprio nome con il pennarello all'altezza del cuore, per distinguersi l'uno con l'altro. Ora, un mese e mezzo dopo, si riconoscono semplicemente dagli occhi. «Dietro le nostre maschere ci sono facce sfigurate ma a volte spuntano dei sorrisi». Lo racconta Fabio Baratto, direttore da due anni del reparto di Anestesia e rianimazione all'ospedale padovano di Schiavonia. È il primario che ha curato e visto morire la prima vittima italiana di Coronavirus.

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Direttore, torniamo a quel 21 febbraio?

«No, partiamo dal giorno prima, il 20. Quando ci rendiamo conto che un paziente di 77 anni, Adriano Trevisan di Vo', presenta qualcosa di anomalo. Ha una polmonite virale, ma tutti gli esami risultano negativi e nemmeno la radiografia ci aiuta. È qualcosa di sconosciuto».

Quindi fate il tampone.
«Sì, ma non è un passaggio così scontato. Quell'uomo non ha i requisiti per fare il tampone. Non arriva da viaggi asiatici e non è stato a contatto con persone provenienti dalla Cina. È semplicemente un anziano che giocava a carte in un bar di Vo'. Insistiamo e la mattina del 21 riusciamo a farlo».

Cosa ricorda di quel giorno?
«La telefonata del direttore medico in cui mi informa dell'esito. Positivo. Mi sento cadere addosso una valanga. Chiamo il personale e dico: Siamo davanti ad una catastrofe. Ma restiamo lucidi e scatta il piano. C'è chi rimane dentro l'ospedale 34 ore, chi 40, chi 48. Blindare l'ospedale e bloccare tutto è stata una scelta oculata: ha impedito che nascessero altri focolai come quello di Vo'».

Lasciar da parte le emozioni è stato possibile?
«Non c'era il tempo di pensare, se non a triplicare i posti letto di Terapia intensiva riconvertendo l'unità coronarica e le sale operatorie. I macchinari per fortuna sono arrivati subito, grazie ad Azienda Zero e a qualche donazione. Intanto chiunque è stato sottoposto a tampone. Tutti negativi. Solo un anestesista, ora, è in isolamento domiciliare perché positivo».

Si rendeva conto di essere il primario del primo morto italiano di Covid 19?
«Sì, ma il tempo viaggiava troppo velocemente. Facevamo riunioni ogni due ore e in reparto siamo passati da 25 a 50 infermieri al giorno. È stato tutto stressante, la tensione soprattutto all'inizio era tangibile. La paura c'era: chi è genitore non poteva abbracciare i figli, ma per fortuna abbiamo fatto un lavoro di squadra grandioso».

Ora l'ospedale è diventato Covid Hospital provinciale.
«È una situazione impegnativa, perché parliamo di malati che ti assorbono molte energie e lavorare con tutte quelle protezioni non è facile, ma tutti stanno dando il massimo. Dei 50 posti letto 23 sono occupati e abbiamo appena dimesso altri tre pazienti. Per altri presto terminerà l'intubazione. Non possiamo definirlo un lavoro routinario, ma almeno ora è un lavoro che conosciamo».

I familiari non possono vedere i pazienti, nemmeno per l'ultimo saluto.
«È una cosa terribile. Ma almeno cerchiamo di utilizzare le videochiamate: per i parenti a casa poter vedere un medico, seppur dietro una visiera, è importante. E per questo arrivano molte lettere di ringraziamento».

Vi ha travolto una valanga, ma anche un'onda di solidarietà.
«C'è chi ci porta fiori, pizzette, panini, magliette pensando alle nostre che sono sudate. A nome di tutto il mio straordinario personale voglio dire che quei gesti hanno per noi un'importanza immensa. Lì dentro noi e i pazienti non siamo soli».


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Il Gazzettino