Il sociologo Stefano Allievi: «Nessuna ripartenza: io vedo solo due Italie»

Stefano Allievi
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PADOVA - Nel suo sito personale cita Wislawa Szymborska, la poetessa premio Nobel nel 1996: Meglio il prezzo che il valore/e il titolo che il contenuto./ Meglio il numero di scarpa, che non dove va / colui per cui ti scambiano. E poi ha deciso di sintetizzare così se stesso: «di mestiere, professore e sociologo / di percorso, bibliofago ondivago/d'altro: padre, marito, e poligrafo. Come dire intellettuale a tutto tondo, Lui, Stefano Allievi, milanese, classe 1958, è giornalista, scrittore, docente universitario. Dal 2018, professore ordinario di Sociologia all'Università di Padova. In questi giorni ha esordito in una conferenza-spettacolo in quel di Fabrica a Villorba dal titolo Ri/partire. L'Italia dopo il Coronavirus.

Professore, soddisfatto di questo primo appuntamento?
«Sì, senz'altro è stata un'occasione per riflettere. Ed è stato molto importante perchè oggi siamo davvero ad un bivio. Ci sono due modi per ripartire. Quello a breve termine e quello a lungo termine.
Lei che dice?
«Occorre scegliere e non ripartire senza sapere dove si va. Ed è un problema serio. Ho l'impressione che oggi non abbiamo ancora consapevolezza di quanto ci è accaduto. Insomma, il peggio deve ancora venire». 
Ci siamo liberati del Covid-19 solo in parte?
«Ho l'impressione che i veri problemi emergeranno in autunno, quando il virus magari riprenderà vigore. Lo vedremo. Il peggio riguarderà il mondo che ci circonda: quando le aziende si ritroveranno davvero in difficoltà; quando la cassa integrazione si trasformerà in licenziamento... Ho la sensazione che non abbiamo ancora contezza di quello che possa accadere».
Scenari pesanti, sarà un nuovo Dopoguerra secondo alcuni.
«Il Dopoguerra è stato complessivamente meno difficile. In tutto questo tempo non abbiamo condiviso un bel nulla, se non la retorica dei canti sui balconi, ma non abbiamo approfondito quando è capitato a noi come collettività».
Da cosa lo intuisce?
«Dal fatto che vedo due Italie. Ce n'è una che non si è accorta di nulla. E lo si capisce dalle reazioni legate alla riapertura in quei settori che si ritengono garantiti, e che alle volte si comportano in modo isterico. E poi c'è una seconda Italia che sta pagando e pagherà un prezzo elevato. Ecco non c'è consapevolezza di questa drammatica divisione».
Difficile avere una ripartenza concreta, quindi. Siamo solo davanti a degli slogan?
«Perchè ci sia una ripartenza vera occorre una visione. Occorre avere uno sguardo di insieme su almeno alcune questioni aperte: lavoro, istruzione, demografia, migrazione/emigrazione. E questo al momento manca. Perchè diciamocelo il nostro Paese stava già vivendo un momento di catastrofe prima. E ora occorrerebbe, invece, un'operazione verità».
Ovvero?
«Prendiamo la demografia. Siamo un Paese vecchio e con pochi bambini. La percentuale è di 3 a 2; nel 2045 sarà di uno a uno. Se continueremo ad avere questo trend andrà a finire che non reggeremo. Abbiamo bisogno di manodopera, ma al tempo stesso non abbiamo nemmeno posti per gli istruiti, i quali se ne vanno all'estero. Ci ritroviamo un Paese che si avvinghia nella discussione sugli immigrati e si trova ai primi posti per emigrazione...»
Altro che rientro dei cervelli in fuga, quindi.
«Già. Se ne vanno i giovani, se ne vanno gli universitari, se ne vanno addirittura le famiglie con bimbi piccoli. E che dire degli studenti Erasmus che se ne rimangono all'estero? E gli anziani che vivono bene con la loro pensione alle Canarie? Possono bastare questi dati per riflettere su cosa ci aspetta post Covid 19».
E questo si ripercuote su istruzione e lavoro.
«Infatti come italiani siamo scarsamente informati, poco alfabetizzati, poco istruiti. Non abbiamo investito e non stiamo investendo nella knowledge economy, nell'economia della conoscenza. Chi lo sta facendo si trova al passo con il resto d'Europa, chi non se ne è mai curato, fatica. Guardi come ci stiamo comportando con la scuola».
Abbiamo fatto la corsa ad ostacoli per garantire la didattica a distanza...
«In realtà non abbiamo fatto nulla. Anzi, la politica ha fatto addirittura l'opposto. La pandemia ha messo a nudo due settori vitali: sanità e istruzione. E allo stesso tempo si sono dati benefici al ceto dei garantiti con una pioggia di soldi, circa tre miliardi di euro; molto meno è andato a chi doveva davvero essere garantito, e che non lo è stato affatto. Poco più di un miliardo per le scuole, ad esempio. Non è un caso, nemmeno, che si sia deciso di non farle ricominciare».
Perchè?
«Si pensa che non sia rilevante».
Problemi di contagio, però, è stato detto.
«Non mi troverà a dare la colpa ai politici. È uno sport facile che non mi appartiene. Però è tutto parte di una visione che non abbiamo. Si dice che siamo l'ottava nazione più industrializzata al mondo. Poi si svolgono solo i G7, dove non ci siamo; e i G21 dove facciamo parte di un consesso troppo ampio e che alla fine è quello che è. Vorrà pure dire qualcosa».
Questione più ampia, quindi.
«Questione di classe dirigente che non ha la consapevolezza del valore dell'istruzione».
Ma ci sarà pur qualche effetto positivo no?
«Certo, le eccellenze non mancano, in alcuni settori sono avanzatissime. Ma la questione è un'altra: perchè la Spagna che è più debole di noi, ma che ci assomiglia per indole, per storia, per comunanza, sta meglio di noi? Semplice. Perchè ha modernizzato il suo sistema burocratico, le pubbliche amministrazioni, ha velocizzato i tempi della giustizia, ha sviluppato l'e-commerce».
È questa la sua operazione verità?
«Sì, occorrono scelte radicali. Proprio perchè non andrà tutto bene. Occorrerebbe indicare delle priorità: capacità imprenditoriale, resilienza, riforma del sistema scolastico, mondo della ricerca. La gente capace di tutto questo c'è. bisogna solo farla emergere».
Come sociologo lei si occupato anche dei cambiamenti che l'emergenza Covid-19 ha comportato sulla religiosità.
«Credo che il mondo delle religioni possa fare un buon uso delle crisi sapendo distinguere quello che è orpello da ciò che è fede. Ed è una questione centrale e di senso per ogni comunità. Si è capito e si va capendo ciò che è fondamentale e ciò che può risultare accessorio. E questo lo stiamo provando sulla nostra pelle a seconda del proprio credo».
Professore, come è stata ed è la sua Quarantena?

«È stato un periodo molto fecondo. Ho lavorato molto anche se è stato rattristato dalla morte naturale di mia madre. Con questo episodio ho sentito in prima persona il dramma della morte in solitudine. Tutto ciò mi ha solo permesso di riflettere ancor di più su quello che ci è accaduto»
Paolo Navarro Dina
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Il Gazzettino