Coronavirus, l'infettivologo Crapis: «Malati curati in casa con l'antimalarico»

Massimo Crapis
PORDENONE - Che fosse aviaria o suina, Sars o Mers, è dal 2000 che l’infettivologo Massimo Crapis, direttore del servizio di infettivologia della AsFo di Pordenone,...

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PORDENONE - Che fosse aviaria o suina, Sars o Mers, è dal 2000 che l’infettivologo Massimo Crapis, direttore del servizio di infettivologia della AsFo di Pordenone, si aspettava una pandemia. C’erano tutte le condizioni per arrivare all’emergenza che stiamo vivendo con Covid-19.


Dottor Crapis, come vi siete riorganizzati in ospedale?
«A Pordenone non abbiano un reparto di malattie infettive, si è reso necessario creare tre reparti Covid dal nulla, dove l’internista è affiancato da infettivologi, nefrologi e pneumologi. A questo team multidisciplinare danno il loro contributo colleghi di specialità chirurgiche che danno una grossa mano e rendono possibile la gestione».
Lo stesso vale per gli infermieri?
«Infermieri e Oss che, soprattutto nei primi due reparti aperti, erano abituati a gestire pazienti di area chirurgica, si sono da subito messi a trattare tipologia pazienti diversi dal punto di vista clinico e gestionale. Un plauso alla loro disponibilità. In terza medicina la gestione è stata più semplice, perchè erano già abituati a gestire un pazienti di ambito internistico».
Sono saltati tutti gli schemi?
«Sì, ma in positivo. C’è un clima di collaborazione e di abnegazione assolutamente trasversale. Chi ha voglia di fare è ben apprezzato e lavora in team. Tutti giochiamo per portare a casa il risultato».
Che ruolo ha l’infettivologo?
«All’inizio eravamo in due. Da dieci giorni siamo raddoppiati, si sono aggiunte due colleghe, una era già prevista, una è stata assunta grazie all’emergenza Covid. Siamo disponibili 24 ore su 24, anche perchè diamo supporto al 112. Il 112 filtra i pazienti, ma una parte è necessario che parli con l’infettivologo. Dal 21 febbraio siamo reperibili telefonicamente». Qual è l’approccio terapeutico?
«In continua evoluzione. È un virus nuovo che abbiamo conosciuto il 9 gennaio. Non c’è una terapia, si sono mutuate delle terapie che avevano cominciato ad essere sperimentate con ebola o Sars».
Vale anche per chi è curato a casa?
«Stiamo approntando un protocollo di terapia che coinvolgerà anche i medici che faranno parte delle Usca (Unità speciali di continuità assistenziale, ndr), affinchè sotto strettomonitoraggio da parte nostra siano in grado di iniziare le terapie ai pazienti a domicilio. In particolare utilizzeremo l’idrossiclorofina, un antimalarico, è il più razionale per la immunomodulazione. Il fattore critico, che porta alla grave malattia, è la risposta infiammatoria spropositata di alcuni pazienti. Per partire abbiamo bisogno degli Usca, l’attivazione dovrebbe avvenire a giorni».
C’è la possibilità di individuare farmaci specifici?
«Non esiste un farmaco specifico nei confronti della famiglia dei coronavirus, non credo sia proponibile. Spero che in tempi brevi riusciremo ad avere la strategia terapeutica migliore, cioè trovare il farmaco o l’eventuale associazione di farmaci. Il ruolo fondamentale lo gioca la reazione del sistema immunitario nei confronti del virus che, in alcuni soggetti, che in questo momento non siamo in grado di individuare in anticipo, ha una risposta spropositata. Si tratta di una tempesta infiammatoria, un eccesso di legittima difesa sul quale dobbiamo agire con farmaci diversi».
Che cosa ne pensa dei tamponi a tappeto?
«Fino ad oggi l’unica diagnosi possibile era il tampone, che ha una bassissima sensibilità: individua dai 6 agli 8 pazienti. Stanno scarseggiando, non ce li abbiamo per tutti, mancano reagenti, kit e tamponi. Dobbiamo selezionare i pazienti e gli operatori sanitari per i quali è necessario avere diagnosi. Cerchiamo alternative diagnostiche, adesso si sono affacciati i test sierologici».
Li farete anche a Pordenone?
«Essendo un test di recente introduzione, da inizio settimana si sono affacciati in termini commerciali, non abbiamo la sicurezza della loro efficacia e validità. Come AsFo, in contatto con Trieste e Udine, abbiamo deciso di provarli per qualche giorno su pazienti positivi, dall’asintomatico al lieve e al grave. Li confronteremo con sieri negativi, che risalgono all’anno scorso, quanto il Covid c’era. Quando la metodica sarà validata, potremo usare la sierologia per restringere la popolazione su cui fare il tampone».
Gli anticorpi di chi è guarito possono essere una speranza per la cura dei malati gravi?
«Non siamo in grado di stabilire se una persona guarita sia protetta. C’è uno studio sperimentale sull’uso del siero iperimmune. I dati preliminari del trial fatto in Cina sembrano dare dei risultati e la Lombardia lo sta replicando».
Sarà fatto anche in Friuli?

«Ne abbiamo parlato, stiamo valutando con il collega del Centro immunotrasfusionale la possibilità di aderire a questo trial clinico e di attrezzarci anche noi per farlo». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino