Cecilia Zen Tron e il secolo delle donne libere e chiacchierate

Illustrazione di Matteo Bergamelli
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VENEZIA - La vita di Cecilia Zen Tron dovrebbe essere raccontata in rima; con una poesia, un sonetto, una lirica. D'altronde, la nobildonna veneziana che nel 1772 – a diciassette anni – andò in sposa al cinquantenne Francesco Tron, divenendo cognata del potentissimo Andrea Tron “El Paron” (che dovrà rinunciare alla corsa al dogado a causa dei comportamenti della moglie Caterina Dolfin Tron, vero pezzo da novanta dei salotti settecenteschi), fu molto discussa ma anche molto cantata, in vita.


Ci pensò per esempio l'abate Giuseppe Parini, che la conobbe probabilmente mentre la veneziana abitava a Brescia dove il marito era podestà (e dove non esitava a dare scandalo con la sua condotta disinvolta, andando a cavallo da sola vestita da uomo e praticando la scherma). Sensibilissimo al fascino femminile, il letterato le dedicò un intero sonetto, “Per Cecilia Tron Veneziana”, che prima di terminare con un “Taci i miei danni; e l'onta non eternar de la mancata fede” – che sembra alludere a una delusione d'amore avuta da lei – inizia così: “Grato scarpel su questo marmo incidi / Il fausto dì quando a' miei Lari apparse / Colei che Diva de gli Adriaci lidi / Chiara fama di sé nel mondo sparse”.

D'altronde lo stesso abate, nell'ode “Il pericolo” (rappresentato proprio dalla tentazione amorosa), la evoca in questi altri versi: “E a le nevi del petto / Chinandosi da i morbidi Veli non ben costretto / Fiero dell’alme incendio! Permetteva fuggir?”. Di sicuro non fuggì da lei il conte di Cagliostro, col quale si dice avesse una relazione molto tormentata.

Ma anche lei non disdegnava di esprimersi attraverso le lettere e in versi. Di lei sono rimaste alcune corrispondenze molto spiritose, sebbene abbastanza volgari. Ma nulla può superare ciò che avvenne nel corso del carnevale del 1782, quando in occasione di un importante spettacolo al teatro San Beneto – che di lì a qualche anno brucerà in un incendio che produrrà la costruzione della Fenice a San Fantin – fuconvinta ad affittare il suo palco ai conti del Nord, il granduca di Russia Paolo Petrowitz, figlio di Caterina II, e sua moglie Maria Teodorowna.

La Zen Tron lo fece a un prezzo talmente esorbitante (la strepitosa cifra – per il tempo – di ottanta zecchini!) che subito circolò tra il pubblico, la stessa sera, una satira sboccata in forma di epigramma:“Brava la Trona / La vende el palco / Più caro de la mona”. Immediata la replica della donna, che fece tutto fuorché perdersi d’animo e anzi, è ben il caso di dire, rispose per le rime spiegando che l'anonimo libellista doveva essersi sbagliato perché “La Trona / la mona / la dona”.

Nel bene e nel male fu protagonista del fascino, dello splendore e della decadenza del settecento veneziano, che vide assieme a lei una schiera di donne libere e discusse, nella loro emancipazione a volte fastidiosa per quella parte di società che ancora resisteva all'interno dei vecchi costumi: come Elisabetta Maffetti la “Dandula” (moglie dell'anziano Antonio Dandolo), Marina Querini Benzon “La biondina in gondoleta” o Isabella Teotochi Albrizzi.


Quando cadde la Repubblica andò a ricevere a Mestre Giuseppina di Beauharnais, moglie di Napoleone. Sotto il Regno Lombardo Veneto sposò in seconde nozze il cavalier servente Giorgio Ricchi. Morì nel 1828 lasciando erede dello smisurato patrimonio dei Tron la figlia Chiara Maria. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino