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MESTRE - Più delle pallottole o dei pestaggi, il silenzio. Leonardo Sciascia lo chiama “contesto”. Ed è da quel contesto fatto di omertà e di “non ricordo”, di denunce firmate e poi ritirate, di teste chinate in udienza di fronte al presunto boss, che il pubblico ministero di Venezia, Roberto Terzo, ha cominciato la requisitoria del maxiprocesso al clan di Luciano Donadio, accusato di essere il capo di una cosca mafiosa dei casalesi a Eraclea e nel Veneto orientale.
«Siamo a Eraclea, non a Ballarò - l’incipit del pm - ma nonostante questo, una volta in aula come testimoni, tutti hanno fatto un passo indietro rispetto alle denunce che avevano firmato anni prima: in queste udienze avete sentito testi che non hanno avuto il coraggio di dichiarare la loro paura ma l’hanno comunque espressa attraverso una memoria selettiva: ricordavano fatti a favore di Donadio, non fatti contro Donadio». Anche chi, prima di essere testimone, aveva bloccato finanziamenti al clan, salvo poi ritrattare di averlo fatto.
MAFIA SILENTE
Il nodo è quell’accusa di associazione di stampo mafioso. «Con le prove raccolte siamo in grado di dire che il sodalizio ha le stimmate di appartenenti legittimati a dichiararsi “casalesi” e poi “casalesi di Eraclea”». Un passaggio, quel complemento di specificazione, non da poco perché «dà anche il senso di un affrancamento cospicuo, ma non totale, dalla casa madre che negli anni riduce il suo potere grazie ai colpi della Dda di Napoli - ha puntualizzato Terzo - In quello stesso periodo in cui Casal DiPrincipe perde colpi questo sodalizio si dota di una forza intimidatoria propria attraverso atti di violenza che causano quell’assoggettamento e quella omertà che troveremo in tutti gli episodi della vicenda». Un contesto tale che spinge la pubblica accusa a citare il concetto di «mafia silente»: «L’aver conseguito questa fama gli evita di far ricorso alla violenza: lo stesso Donadio - ricorda il pm - dice che non serve più mostrare le pistole per indurre le vittime a chinarsi. La mafia silente non ha la necessità, in questo caso, di fare violenza ma è un’associazione che, quando serviva, la violenza l’ha usata». E poi, quale il dna dei protagonisti del maxiprocesso. Erano casalesi o autonomi? Il via libera a usare il nome era stato ricordato in aula anche da Nicola Schiavone, ex reggente del clan Schiavone-Bidognetti dal 2004 fino al suo arresto nel 2010.
«“So che in Veneto avevamo dei fiancheggiatori” aveva detto Schiavone, il boss.
TRE INDAGINI
Gli arresti arrivano all’alba del 19 febbraio 2019 ma la prima inchiesta parte nel 2002, poi arenata per trasferimenti in procura. Nel 2006 il secondo fascicolo legato all’accusa di contatti tra Donadio e l’allora sindaco Graziano Teso, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa nel filone abbreviato del processo: anche questo fascicolo finì nel limbo. Ma fu ripreso nel 2009 da Terzo grazie alle dichiarazioni del pentito Vincenzo Vaccaro che raccontò dall’interno il mondo dei casalesi di Eraclea. È in questa indagine che emergono forti - per la procura - i contatti con la politica. «Potevamo aspettarci qualcosa di più dalle testimonianze degli ex prefetti, almeno quelli fatti sentire: la difesa, che li ha chiamati, ha rinunciato a sentire l’unico che sapeva ufficialmente (Vittorio Zappalorto, ndr). Invece l’ex prefetto Carlo Boffi ci dice che a Eraclea il problema erano i migranti e che avrebbero anche pesato sulla sconfitta del sindaco uscente alle elezioni. A Eraclea - la stoccata dell’accusa - i migranti fanno perdere le elezioni e i casalesi le fanno vincere: quei 100 voti che Donadio dichiara, sono sufficienti a coprire il divario di 81 voti che portano Mirco Mestre (ora imputato, ndr) alla vittoria. Non ci risulta che i migranti abbiano fatto male a nessuno, mentre qui stiamo parlando di vent’anni di sodalizio mafioso e di 66 reati».
IN AULA
Terzo e la collega Federica Baccaglini hanno iniziato ieri un racconto lungo quattro udienze, poi spazio alle parti civili e alle difese. Entro giugno la sentenza: primo punto fermo di una storia iniziata - per la procura - a fine anni Novanta. «Il contesto si crea e si amplifica perché il tessuto e le strutture sociali non sono in grado di far fronte a questa penetrazione».
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Il Gazzettino