Ario Gervasutti e l'attentato mafioso: «Cinque proiettili, i buchi delle pallottole nel letto di mio figlio»

Il racconto del caporedattore del Gazzettino vittima nel 2018 dell'atto criminale nella sua casa di Padova. Il mandante sarebbe l'ex senatore leghista Alberto Filippi

Ario Gervasutti, caporedattore del Gazzettino ed ex direttore del Giornale di Vicenza
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PADOVA - Quante volte mi è capitato, in 35 anni di professione giornalistica, di interpretare e raccontare i sentimenti di persone coinvolte in fatti di cronaca. Come i poliziotti, i carabinieri, i medici, gli infermieri, anche i giornalisti devono approcciarsi a certe vicende con il giusto equilibrio tra il distacco professionale e il coinvolgimento emotivo. Non è facile. Ora accade che mi ritrovi io dall'altra parte della "barricata": vittima di un "attentato mafioso". 


E la prima reazione è di incredulità.
La mafia è qualcosa di lontano da qui, ne scriviamo sui giornali come di qualcosa con cui non c'entriamo: cose da analfabeti senza cultura civica, sottobosco dell'illegalità che prospera dove si fatica a mettere insieme pranzo e cena con mezzi leciti. E invece.

CHOC E CALMA
Invece ti capita di svegliarti nel cuore della notte, sotto un temporale estivo, con l'eco sorda di cinque colpi di pistola esplosi contro casa tua. È successo tra il 15 e il 16 luglio 2018, cinque anni fa, in un quartiere tranquillo della civilissima Padova. Eppure in quel momento, passati alcuni minuti di comprensibile choc, è sopravvenuta una calma surreale, che sfiorava l'indifferenza. Erano più spaventati e preoccupati i carabinieri che sono accorsi, perché un'azione così grave e pesante - cinque colpi di pistola dentro la camera dove dormiva uno dei miei figli, i buchi delle pallottole a venti centimetri dalla testata del letto - è l'ultimo stadio prima del colpo finale. Nella graduatoria degli "avvertimenti" di stampo mafioso viene ben oltre le lettere o le telefonate minatorie, le buste con pallottole, l'auto o la porta di casa incendiate. È un messaggio ad alta intensità criminale, perché come mi ha spiegato un amico generale dei carabinieri «quando spari 5 colpi dentro una camera, hai il 50% di possibilità di non colpire nessuno, e il 50% di uccidere. E chi ha sparato l'ha messo nel conto». L'indifferenza del male, che subito ha fatto capire che bisognava orientarsi verso la criminalità mafiosa. Gente che sa sparare.
Nonostante questo, nonostante la presenza discreta e costante dei carabinieri che per molti mesi hanno affiancato me e la mia famiglia per far capire ai delinquenti che non sarebbe stato facile riprovarci, la mia vita non è cambiata. Non per incoscienza, anzi. Ma per l'intima convinzione che non c'era alcun motivo razionale che potesse spingere chicchessia ad alzare ulteriormente il tiro. Perché ho solo e sempre fatto il mio lavoro con il massimo dell'indipendenza e della coscienza possibili. Sia quando giravo il mondo come inviato speciale del Gazzettino, sia quando ho assunto la responsabilità di dirigere un giornale, a Vicenza. Perciò, mentre tutt'attorno amici e colleghi si preoccupavano, io vivevo e lavoravo tranquillo e sereno.

MANDANTE
Fino a tre giorni fa. Fino a quando ho saputo che l'uomo che ha sparato è un sicario calabrese di una cosca della ndrangheta: e fin qui, nulla di particolarmente sorprendente. A lasciarmi a bocca aperta invece è stato quello che gli inquirenti definiscono come "mandante": un industriale affermato, con un'azienda florida, laureato, una famiglia, un'esperienza politica prima come deputato e poi come senatore. Un vicentino. L'ho incontrato 3-4 volte e altrettante l'ho sentito al telefono, una dozzina di anni fa. Lamentava il fatto che veniva trattato male dal giornale che dirigevo, per una vicenda di terreni di sua proprietà sui quali pendeva una discussione sul cambio di destinazione d'uso. Una banalissima vicenda di cronaca locale. Una delle migliaia di lamentele che qualunque direttore di giornale riceve da qualcuno scontento per come vengono riportate vicende che lo riguardano. Non l'ho mai più visto né sentito da allora.


E adesso scopro che ha pagato un sicario per "farmela pagare". Otto anni dopo. Due anni dopo che avevo lasciato la direzione di quel giornale. Qui, per la prima volta da quando è iniziata questa vicenda, ho avvertito un senso di sgomento. Sgomento, non paura: quella se n'è andata un secondo dopo aver realizzato che nessuno della mia famiglia si era fatto male. Lo sgomento di chi realizza di essere sopravvissuto a una scossa di terremoto. Ma soprattutto lo sgomento di scoprire che il male si annida dove è impensabile ipotizzarlo. Non solo tra quattro banditi calabresi, ma nella mente di un apparentemente irreprensibile industriale veneto. Senza un motivo razionale, solo per un inspiegabile e inconcepibile rancore non represso. Per niente, insomma. Ed è questo, alla fine dei conti, che spaventa. Ma che non ti sposta di un millimetro. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino