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Andrea Maggi, il professore de Il Collegio, docu-reality di Rai 2, nella sua rubrica sul Gazzettino si interroga sulla relazione tra intelligenza artificiale e didattica. La nuova tecnologia può sostituire metodi di insegnamento? Bisogna cambiare gli obiettivi? Cosa rimane da insegnare che la macchina non può fare? Ecco il commento di Maggi.
Uno dei saggi più interessanti che ho letto di recente s’intitola “La scorciatoia” di Nello Cristianini (Il Mulino). Un lavoro pregevolissimo, utile a fare il punto su un argomento di strettissima attualità: l’intelligenza artificiale. Cristianini, professore di I.A. all’università di Bath, ripercorre la storia di quella che oggi chiamiamo l’intelligenza delle macchine a partire dalla sua nascita, e in più fornisce al lettore interessantissimi spunti di riflessione sulle infinite declinazioni del significato della parola “intelligenza”.
Cosa vuol dire intelligenza artificiale?
Il termine, di derivazione latina, è composto da “intus” (dentro) e lègere (lèggere). L’intelligenza è ciò che permette di comprendere e che, dunque, determina un comportamento teleologico, ossia tende a uno scopo. L’insuperabilità dell’intelligenza artificiale è data dalla velocità con cui la macchina è in grado di analizzare milioni di esperienze attraverso la rete, e di calcolare tendenze, soluzioni e prospettive in pochi attimi, laddove la mente umana ci metterebbe più di una vita. Nel mondo scolastico oggi ci si interroga molto sulle implicazioni e sulle applicazioni dell’I.A.
Cosa non può fare la I.A.
Quello che l’intelligenza artificiale non può oggettivamente compiere è proprio l’esperienza, la sua fonte principale di apprendimento. Non può, per esempio, gustare il prodotto finito. Quella prerogativa è prettamente umana. Ecco che se c’è una cosa che la scuola non potrà mai rinunciare a offrire ai suoi studenti è proprio l’esperienza. Quale? Quella della scrittura, della lettura, del calcolo, della fruizione di un’opera d’arte, di un sentimento scaturito dalla lettura di una poesia o dalla visione di un’opera teatrale. Della capacità di astrarre, ricavando dall’esperienza sensoriale una visione del mondo, che è alla base della formazione del libero pensiero, prerogativa da sempre alla base dello sviluppo della scienza, della letteratura e della filosofia, frutto della determinazione, quella sì tutta umana, di sostenere idee valide anche se in controtendenza rispetto alla statistica delle preferenze. Se Galileo fosse stato un software, non avrebbe mai esplorato il cielo con quel coraggio per lui così “antieconomico” che gli causò la condanna, nonostante avesse ragione.
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Il Gazzettino