Ha senso rischiare e morire per salire una montagna? Sì ce l'ha, anche se molti si rifiutano di accettarlo

Ha senso rischiare e morire per salire una montagna? Sì ce l'ha, anche se molti si rifiutano di accettarlo
Egregio direttore, un'altra vittima della montagna, dell'alpinismo o dello scialpinismo. Una ragazza di 34 anni ha perso la vita sommersa da due metri neve nelle nostre...

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Egregio direttore,
un'altra vittima della montagna, dell'alpinismo o dello scialpinismo. Una ragazza di 34 anni ha perso la vita sommersa da due metri neve nelle nostre Dolomiti. In questo caso non possiamo neppure dare la colpa all'inesperienza o alla impreparazione: era una maestra di sci a Cortina. Conosceva quindi bene la montagna, la neve, i suoi rischi. Eppure tutto questo non è bastato. Ma la domanda che mi faccio sempre di fronte a queste tragedie è: perché lo fanno? Perché corrono questi rischi?


A.P.
Venezia


Cara lettrice,


non c'è e non ci sarà mai un'unica risposta alla sua domanda. Ciascun alpinista o scialpinista ne darebbe una diversa. Dettata dalla sua esperienza, dal suo modo di essere e di sentire. Replicando in questa stessa rubrica a una lettera dai toni assai critici dopo la tragedia di quest'estate sulla Marmolada, ricordai un bellissimo libro sull'alpinismo I conquistatori dell'inutile scritto da un grande arrampicatore francese, Lionel Terray. Un testo che nel suo titolo spiega con straordinaria efficacia il senso, o per qualcuno l'assoluta assenza di senso, dell'alpinismo e dell'andar in montagna. Perché è esattamente così. L'alpinismo, ad ogni livello, è una scelta di disinteressata libertà. Si sale per sentirsi liberi di far fatica, di sudare, di aver paura, di mettersi alla prova, di andare avanti o di tornare indietro senza altri fini, senza alcun tornaconto personale che non sia il piacere di esprimere se stessi e di vivere la montagna. E quella invernale è forse la dimensione più vera: perché con la neve le montagne sono, o meglio appaiono, più grandi, più vaste, anche più pulite nel loro candore. Certamente, fuori dalle piste, è anche la dimensione più insidiosa e pericolosa. Ma il rischio, piccolo o grande che sia, fa parte della vita. E la montagna è (anche) una grande scuola di vita: perché ti insegna l'importanza della sofferenza, il senso del limite, il non dar mai nulla per scontato, perché ti mette di fronte alla grandezza e talvolta anche alla brutalità della natura. Un grande alpinista americano Royal Robbins ha scritto: «Salire non serve a conquistare le montagne: le montagne restano immobili, siamo noi che dopo averle salite non siamo più gli stessi». Forse per qualcuno questa è soltanto vuota retorica. Che non può giustificare in alcun modo il sacrificio della vita. Comprensibile. Ma non è sempre necessario giudicare gli altri e le loro scelte. Talvolta basta accettarle e rispettarle.
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Il Gazzettino