Quel malessere del Nordest che aspetta risposte

Quel malessere del Nordest che aspetta risposte
Narrano le cronache che Matteo Renzi, nel tardo pomeriggio di domenica, di fronte ai dati sull'alta affluenza e ai primi, riservati, exit pol, abbia commentato amareggiato con...

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Narrano le cronache che Matteo Renzi, nel tardo pomeriggio di domenica, di fronte ai dati sull'alta affluenza e ai primi, riservati, exit pol, abbia commentato amareggiato con alcuni stretti collaboratori: «Sono andati a votare in massa per mandarmi via». Se questo è vero, lo è a maggior ragione per il Veneto e il Nordest nel suo complesso. Basta osservare la cartina dell'Italia dopo il voto referendario per rendresene conto. Il Veneto è in assoluto la regione dove si è votato di più: oltre il 76,5% degli aventi diritto, in Friuli Venezia Giulia tre punti in meno. Ma soprattutto il Veneto è la regione del Centro-Nord dove il No ha raggiunto le percentuali più elevate: il 62%, due e passa in più della media nazionale e, soprattutto, quasi 6 punti in più rispetto a Lombardia e Piemonte.


Eppure non si può certo dire che Venezia e le altre città siano state trascurate dal premier durante le campagna elettorale. Renzi si è speso molto: ha visitato aziende, tenuto affollati comizi, aperto i cordoni della borsa stipulando un ricco patto con il sindaco di Venezia. Tutto inutile, il No ha vinto o stravinto quasi ovunque, con le sole eccezioni di un decina di paesi e quelle del centro storico di Padova e di alcuni sestieri del cuore di Venezia. È immaginabile che, come altre volte, questo risultato, imprevisto nelle sue clamorose dimensioni, venga sbrigativamente letto come la naturale conseguenza di un territorio storicamente orientato a centro-destra, con spiccate simpatie leghiste e anti-statali. Un'analisi superficiale, che confonde la causa con l'effetto. Perché la sconfitta senza appello del Sì e di Renzi in Veneto non è merito di Zaia o del Movimento 5 Stelle e dipende solo marginalmente dai contenuti della riforma della Costituzione su cui gli italiani erano chiamati a pronunciarsi.

La valanga di No è innanzitutto la conseguenza di un disagio profondo, diffuso e ampiamente sottovalutato, che ha trasformato il Veneto e il Nordest da locomotiva d'Italia a polveriera politica, a territorio-simbolo della protesta e delle inquietudini del Nord del Paese. Un colpo decisivo l'ha inferto la crisi delle Popolari che ha fatto svanire nel nulla 7-8 miliardi investiti da imprese e famiglie nelle azioni delle banche venete. Un'emorragia di ricchezza che altrove avrebbe forse generato sommosse di piazza. In Veneto, che è terra di rivoluzionari ma non di rivoluzioni, non è successo nulla di tutto questo, ma il crack delle popolari ha fortemente contributo a impoverire le famiglie e a ingrossare il partito dello scontento e del malessere che domenica ha votato massicciamente No al referendum.

Sarebbe però riduttivo limitare tutto a una pura questione economica, di schei. Il malessere del Nordest è qualcosa di più profondo e insieme di potenzialmente disgregante. Il Veneto resta una delle aree con il più alto tasso di imprenditorialità e di benessere diffuso d'Italia e d'Europa. Ma negli ultimi anni ha visto sgretolarsi molte delle sue certezze, ridurre la propria autostima insieme alla capacità di produrre valore e di guardare al futuro con fiducia e senso di protagonismo. Non è un caso che il tasso di natalità sia, da qualche tempo, uno dei più bassi in assoluto: si fanno sempre meno figli, ancor meno che in altre zone del Paese. In questo clima, i fenomeni migratori, malamente o per nulla gestiti da governi nazionali e comunitari, sono un ulteriore, micidiale detonatore di pericolosi conflitti in un territorio che ha già la più elevata presenza di stranieri: incrinano il senso di sicurezza, generano nuove tensioni sociali, acuiscono il distacco dai poteri statuali. Non sono fenomeni diversi da quelli che caratterizzano molte aree del Paese, da Nord come a Sud. Ma a Nordest, come testimonia anche la valanga di No, hanno avuto un impatto più traumatico e acuto, al punto dal mettere in discussione un modello economico-sociale e la funzione-guida che questo territorio ha avuto negli ultimi decenni nel Paese.


Di fronte a un quadro come questo suonano davvero stonate o inadeguate tante analisi ascoltate in queste ore. Da sinistra come da destra. Certamente le tecnicalità politiche, in momenti di transizione come questi, hanno il loro peso e la loro importanza: serve un governo che conduca in porto la manovra di bilancio e prepari le elezioni. Ma è d'obbligo saper guardare oltre: perché se la classe politica, nessuno escluso, non riesce a sintonizzarsi sulle ragioni del malessere e a fornire alcune risposte, il rischio che abbiamo davanti a noi è la disgregazione ed il declino. A Nordest e in Veneto, prima che altrove. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino