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come si può fare affidamento alle parole di Renato Vallanzasca sul caso Pantani? Gli addetti ai lavori sanno bene che le analisi del sangue alle quali vengono sottoposti i ciclisti non lasciano dubbi. Ma se è giusto fare chiarezza sulla sua morte non si parta da quel famoso e triste Giro d'Italia del 1999, bensì dalle amicizie più intime del campione romagnolo.
Elvis Sassali
Mel (Belluno)
Caro lettore,
Marco Pantani è stato un grande campione. Ma di un ciclismo che faceva un uso larghissimo, metodico e programmato di sostanze dopanti. Il Pirata era un fuoriclasse naturale, avrebbbe vinto e stravinto anche senza il ricorso a ormoni e medicinali, ma si piegò alle regole di quel sistema, di quel ciclismo malato e falsato dalla chimica. Lui, di suo, nella parabola terminale di una tortuosa esistenza, ci mise anche la cocaina. Tutto questo va detto e ricordato non per infangare la memoria del Pirata, ma per rispetto di una verità storica, che nulla toglie alla grandezza di un'atleta che resterà nella memoria collettiva degli italiani. Anche per questa ragione trovo tristemente ipocrite certe rievocazioni che è capitato di leggere in questi giorni sull'onda della riapertura dell'inchiesta sulla morte di Pantani. Capisco la famiglia che cerca di dare e di darsi una spiegazione alla tragica perdita di quel figlio così particolare, così introverso che solo in sella a una bicicletta ritrovava una sua dimensione. Capisco invece molto meno tutto il resto. Credo che la cosa migliore sarebbe fare ciò che suggerì Garzelli, a lungo gregario e amico di Pantani: "Lasciamo risposare in pace Marco". Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino