Quella contro il virus non è una guerra tradizionale, ma su di noi ha conseguenze del tutto simili

Quella contro il virus non è una guerra tradizionale, ma su di noi ha conseguenze del tutto simili
Caro direttore, oggi bisogna stare tutti a casa ma la casa l’abbiamo. Oggi le fabbriche sono chiuse ma ci sono. Io ricordo l’estate del ‘45 quando pochi avevano...

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Caro direttore,
oggi bisogna stare tutti a casa ma la casa l’abbiamo. Oggi le fabbriche sono chiuse ma ci sono. Io ricordo l’estate del ‘45 quando pochi avevano la casa, molte fabbriche erano state bombardate, le comunicazioni scarse. Tutti sapevano di essere italiani nonostante alcuni venduti ci offrissero un’altra patria a Est. Un genio della finanza guidava la ricostruzione, affiancato da uomini che si erano formati al pragmatismo senza pregiudizi e paure. Restaurare la Patria contava più della politica. Le fabbriche hanno ricominciato a lavorare e tanti disoccupati in casa, nella stalla, nei sottoscala e tanta voglia di fare, hanno ripreso e rifatto l’Italia, tanto forte da ottenere il premio per la moneta più solida. Quella fu una resurrezione a cui il mondo assistette con ammirazione, per cui mi sento di dire che essere italiano è un privilegio. O almeno lo è stato. Perciò non piangiamoci addosso, ora che abbiamo già tutto pronto per ricominciare e basta volerlo e trovare chi sappia guidare gli inizi. 

Gianni Oneto
Padova

Caro lettore,

spesso parlando del coronavirus, della sua potenza devastante e delle misure per sconfiggerlo si fa ricorso a metafore belliche. Naturalmente ogni guerra ha una sua storia. Ai nostri nonni e bisnonni la patria chiedeva di andare in trincea o su un carro armato, a noi chiede di stare seduti in salotto. C’è una bella differenza. Ma se anche un leader politico, molto attento alla comunicazione, come Emmanuel Macron nel suo discorso alla Francia del 12 marzo scorso ha ripetuto per ben 7 volte: “Noi siamo in guerra”, una ragione c’è. Il fatto è che se anche non richiede il ricorso agli arsenali militari, questa epidemia ha sulla nostra società effetti simili a quelli di una guerra. Perché, anche in questo caso, quel che valeva fino a ieri, oggi può essere sacrificato. Ciò che prima era impensabile oggi può apparire necessario: passare ad un’economia di guerra, imporre restrizioni alle libertà individuali, rinunciare a diritti. E tutto ciò senza dibattito pubblico e neppure vincoli temporali. Ma come scelte imposte dallo stato di necessità. Esattamente come durante una guerra. Che vinceremo. Per poi affrontare il dopoguerra. E li misureremo la nostra capacità di essere all’altezza di chi altri dopoguerra ha guidato e gestito. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino