Egregio direttore, ogni volta che leggo la notizia di una sciagura in montagna, non posso fare a meno di chiedermi: ma perché lo fanno? Perché erano lì?...
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Egregio direttore,
ogni volta che leggo la notizia di una sciagura in montagna, non posso fare a meno di chiedermi: ma perché lo fanno? Perché erano lì? Abbiamo letto che la tragedia che si è consumata sulla Marmolada era secondo molti imprevedibile e impensabile. Non sono un esperto. Non lo so. Ma quelle domande restano. Non so se lei può e vuole provare a dar loro una risposta.
S.F.
Treviso
Caro lettore,
da modesto frequentatore di montagne, è una vita che mi sento fare la stessa domanda: ma perché lo fate? Perché rischiate e fate tanta fatica? Magari a porre questo quesito sono persone che considerano normale viaggiare a 180 km l'ora in autostrada; che fumano 20 o 30 sigarette al giorno o che, quando siedono a tavola, si rimpinzano di ogni schifezza e se chiedi loro perché fanno tutto questo, ti rispondono con naturalezza: beh, perché mi piace. Ebbene, è esattamente questa anche la prima e principale motivazione che spinge escursionisti e alpinisti di ogni ordine e grado a sudare e imprecare per superare un passaggio, a soffrire per l'ultimo, maledetto dietrofront con gli sci per arrivare su una cima innevata, a sopportare levatacce assurde e temperature improbe per toccare quota 4mila. Il semplice ma fondamentale piacere di farlo, di essere lì e di essere arrivati lì, di vivere quella bellezza, di aver provato a se stessi che si è stati capaci di farlo e di aver misurato i propri limiti, qualunque essi siano. C'è un libro fondamentale nella letteratura di montagna. L'ha scritto qualche decennio fa uno dei più famosi e forti alpinisti francesi, Lionel Terray. Ha un titolo emblematico: I conquistatori dell'inutile. Poche parole che spiegano il senso e l'intimo paradosso di una passione, di una scelta, di tante sofferenze. Qualcuno, in quel titolo, potrà leggere, e in effetti ha letto, una dichiarazione di fallimento e la conferma dei propri dubbi. Altri, al contrario, vi vedono il senso stesso e profondo dell'andare in montagna: un'azione libera, vitale, naturale e svincolata da ogni logica di interesse concreto. E che proprio per questo, nella sua massima espressione, consente, come spiega Terray, di affrontare fatiche immani e di provare a superare ogni limite umano per raggiungere una cima. Questo modo di essere e di sentire mi è sembrato di leggerlo anche nei selfie pervasi di gioia e di profonda vitalità scattati da alcune delle vittime del ghiacciaio della Marmolada prima di iniziare la loro ultima, tragica discesa. Sensazioni e stati d'animo che molti, legittimamente, non riescono e non riusciranno a capire e ad accettare. Non abbiamo la pretesa di convincerli del contrario nè di far loro cambiare idea. Sarebbe sufficiente poter non ascoltare tante banalità e tante parole in libertà sulla montagna e sull'alpinismo come è accaduto in questi tristissimi giorni.
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Il Gazzettino