Negozi multietnici, proposta di legge: insegne solo in italiano (e corsi di lingua obbligatori per i gestori)

Negozi multietnici, proposta di legge: insegne solo in italiano (e corsi di lingua obbligatori per i gestori)
La sua è una battaglia che comincia otto anni fa. Il primo tentativo passò attraverso la presentazione di un emendamento al decreto incentivi (che fu però...

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La sua è una battaglia che comincia otto anni fa. Il primo tentativo passò attraverso la presentazione di un emendamento al decreto incentivi (che fu però dichiarato inammissibile). Ora, con la Lega al governo, la deputata del Carroccio Silvana Comaroli ci riprova e deposita nuovamente un disegno di legge che da una parte prevede per le Regioni la possibilità di stabilire l'obbligo di un test di italiano per chiunque voglia aprire un esercizio commerciale e dall'altra mette al bando le insegne multietniche. Cosa prevede la proposta? Che le denominazioni siano rigorosamente in una lingua dei Paesi europei. Vanno ovviamente benissimo l'inglese o il francese, ma anche idiomi meno diffusi come danese o ungherese. Divieto invece, per esempio, per nomi cinesi o arabi. Dunque anche lo Shawarma kebab' sotto casa potrebbe diventare fuori legge.


È però prevista un'altra possibilità, in linea con storiche battaglie leghiste, ovvero quella di sceglie per i propri negozi nomi in «dialetto locale». Basta ricordare i tempi in cui il Carroccio bossiano, in nome di Berghem' e Milan', chiedeva il bilinguismo italiano-vernacolo per i cartelli stradali. A Treviso, poi, nel 2011 una maggioranza di centrodestra propose un regolamento che imponeva agli stranieri di tradurre le proprie insegne anche in italiano.
La proposta della deputata Comaroli è stata nuovamente depositata il 26 giugno, a governo Conte già in carica, e assegnato alla commissione Attività produttive. La premessa dell'esponente leghista è che non c'è alcun intento «discriminatorio».

INSERIMENTO
L'obiettivo, si legge nella relazione, è al contrario quello di «favorire un più rapido inserimento» nella società, permettendo «di operare sul mercato con maggiore professionalità» e garantire maggiormente i consumatori «che possono ricevere così tutte le necessarie informazioni sui beni e sui servizi acquistati». Non soltanto, visto che per l'onorevole leghista c'è anche un altro principio da tutelare. «Il gestore di un negozio aperto al pubblico - sostiene - deve essere capace di leggere e di capire l'italiano per poter applicare, ad esempio, le norme igienico-sanitarie di base oppure per poter prestare una minima assistenza ai propri clienti». Una esigenza che «è ancora più sentita laddove gli esercizi commerciali somministrino al pubblico alimenti e bevande».

MODELLO PRATO
L'obiettivo sarebbe quello di tutelare chi soffre di particolari patologie o allergie ed è per questo che si stabilisce che «i datori di lavoro che intendano svolgere direttamente i compiti di responsabile del servizio di prevenzione e protezione debbano frequentare un apposito corso e autocertificare i rischi nelle aziende fino a dieci addetti».
Si chiede la deputata leghista: «Com'è possibile garantire la salute e la sicurezza dei consumatori se a frequentare questi corsi sono persone che conoscono poco o per niente la lingua italiana?».


A dimostrazione del fatto che le sue sono proposte «concrete» e «non discriminatorie», la deputata Comaroli cita due casi. Il primo è quello del comune di Prato, città in cui la comunità cinese è numerosa, dove «attraverso una modifica al regolamento del consumo» il test di italiano obbligatorio è già stato previsto. Il secondo esempio, invece, risale sin ai tempi di Walter Veltroni sindaco di Roma quando venne firmato «un protocollo d'intesa con la comunità cinese, che vedeva nell'impiego della lingua italiana sulle insegne esterne agli esercizi commerciali uno dei presupposti fondamentali per l'attivazione di un nuovo processo di integrazione e di coesione sociali».
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Il Gazzettino