«Era straniera. Non la conoscevamo, ci facciamo gli affari nostri qui». Nel vicolo stretto del borgo di Sant’Antonio Abate non c’è tempo e voglia di...
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Si chiamava Marina, aveva cinquasette anni ed era ucraina. Era a Napoli solo per curarsi, convinta da un’amica che qui avrebbe potuto trovare il medico giusto per l’artrosi che non le dava scampo e la limitava nei movimenti ogni giorno sempre di più. Aveva amicizie vere e una generosità senza eguali. Ma la sua dote principale è stata certamente il coraggio. Per gran parte della sua vita ha indossato la divisa, impegnata in quattro guerre.
Prima nell’Armata Rossa dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e poi nell’esercito dell’Ucraina dopo la separazione degli stati indipendenti fino a conquistare i gradi di capitano. «Una vita dedicata agli altri», racconta Ina che con lei divideva da meno di una settimana la brandina accatastata al muro e dove le fiamme le hanno sorprese mentre dormivano. «È colpa mia se è morta – ripete la donna, coetanea della deceduta – perché l’ho convinta a curarsi qui. Ho sbagliato, se non l’avessi fatto lei sarebbe ancora viva». Ina descrive la loro amicizia nata circa diciotto anni fa, quando ha lasciato l’Ucraina in cerca di un lavoro onesto in Italia. «Ho sempre lavorato nei campi e l’ho fatto per dieci anni nelle campagne di Mondragone. Nel mio Paese ho lasciato quattro figli e li affidai a Marina. Si è presa cura lei di loro in mia assenza con la cura, la passione e l’amore di una mamma».
Lei di figli suoi pare non ne abbia avuti, così come non aveva un marito.
Gli occhi azzurri di Ina si riempiono di lacrime continuamente. Piange anche mentre ricorda gli attimi della tragedia, con loro due circondate dalle fiamme, che provano a scavalcarle avvolte da asciugamani bagnati. «Io ci sono riuscita, lei invece urlava presa dal panico ed è andata verso il balcone. La chiamavo ma poi sono scappata via perché iniziavo a non riuscire a respirare».
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Il Gazzettino