TERAMO - «Sono morti dove desideravano morire». Gli occhi di Cristina Presutti sono azzurri come il cielo che si staglia sulle cime del maestoso Gran Sasso. Uno...
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Luca e Roberto erano tornati là dove erano stati cento volte. Con l’idea, sicuramente “estrema”, di tracciare una nuova via in una parete, quella Nord del Monte Camicia, che non è una roba per tutti, anzi. In sessant’anni appena cento salite. Ma è un muro che fa “curriculum”, l’unico nel Centro Italia assimilabile a quelli alpini, 1.100 metri che attivano dinamiche di salita quasi uniche. «Portare a casa una parete del genere è motivo di grande orgoglio» racconta Gino Perini, capostazione del Soccorso Alpino che sa tutto di queste rocce. I due erano arrivati lunedì. «Mi ha chiamato – racconta la moglie di Luca, Cristina – mi ha detto che da quel momento non ci saremmo sentiti perché il telefono non aveva campo e che sarebbero rientrati mercoledì». E infatti, da quanto è stato possibile ricostruire, l’attacco alla parete comincia alle prime luci di martedì, forse intorno alle 3.30-4 del mattino. Luca e Roberto sono in cordata. Probabilmente Roberto è davanti, almeno questo si può presupporre dall’assetto. Il dramma accade in pochi istanti, certamente nella fase iniziale della salita, dove c’è un insidioso “zoccolo d’erba”. Duecento metri circa di salita. Forse piove qualcosa dall’alto, più probabilmente si sgretola la roccia che qui è particolarmente friabile. Di certo una fatalità, un evento che fa saltare tutte le procedure di sicurezza che i due conoscono a menadito. Il volo, l’impatto, la morte.
La sera di mercoledì Patrizia, la moglie di Roberto, si agita. Suo marito non dà notizie. Scatta la telefonata a Cristina che cerca di rassicurarla: «Vedrai, come sempre avranno avuto qualche intoppo tecnico, riemergeranno presto. Allertare i soccorsi? Per carità, Luca è contrario». Ma Patrizia è preoccupata. Chiama Luca Mazzoleni, l’amico titolare del rifugio Franchetti. «Ho chiesto agli amici del Cai di Castelli di andare a dare un’occhiata se c’erano luci o persone in parete – racconta Mazzoleni – ma non hanno visto nulla. Al mattino, alle 6.30, ho chiamato il 118». Il sorvolo, con l’elicottero, comincia dalla parte alta del pendio. «Speravamo di trovarli lì, magari per qualche lungaggine nei tempi – dice Perini, il capo del Soccorso Alpino – invece poi li abbiamo visti in basso». Uno dei due indossava scarpe non da arrampicata. Il che ha fatto presupporre una caduta nelle primissime fasi. In realtà lo “zoccolo d’erba” si eleva per almeno 200 metri e non è detto che sia meglio affrontarlo con una calzatura tecnica. Le parole delle mogli raccontano «due spiriti liberi», con «una passione innata per la montagna», senza alcuna voglia di smettere: «Amava molto il Gran Sasso -dice Patrizia - ed era consapevole di ciò che faceva». Consapevole anche che lì, in quella che consideravano la loro “palestra”, il “buco” della Nord del Camicia, si poteva anche morire. In Rete gira un video autobiografico di Roberto che oggi suona come uno struggente testamento morale: «Questa notte non sognerò nulla, la mia vita è stata un sogno». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino