Casamonica, la cantina delle torture: così il clan minacciava chi non pagava il pizzo

Davanti ai giudici il proprietario di uno dei locali più famosi di Ponte Milvio: il ristorante “Dal Tappezziere”

Csamonica, la cantina delle torture: così il clan minacciava chi non pagava il pizzo
Quando ha parlato in aula era ancora spaventato. «Mi hanno rubato la macchina, mi hanno picchiato», ha detto. E, soprattutto, ha svelato un retroscena inedito e...

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Quando ha parlato in aula era ancora spaventato. «Mi hanno rubato la macchina, mi hanno picchiato», ha detto. E, soprattutto, ha svelato un retroscena inedito e preoccupante sul clan di origine sinti che per anni ha tenuto sotto scacco la Capitale: «I Casamonica mi hanno detto che se non avessi ubbidito mi avrebbero rinchiuso nella cantina delle torture che usano alla Romanina per convincere i debitori a pagare». A parlare in aula, davanti ai giudici della VII sezione collegiale e rispondendo alle domande della pm Giulia Guccione, è il proprietario di uno dei locali più famosi di Ponte Milvio: il ristorante “Dal Tappezziere”. A suo dire, l’obiettivo di due componenti del clan, Antonio e Guerino Casamonica - il primo è uno dei protagonisti del raid al Roxy bar - era trasformare il locale in una base di spaccio nel cuore della movida.

LA VICENDA

I fatti risalgono al periodo tra maggio 2015 e il 2016. Secondo la denuncia del ristoratore, all’inizio si sarebbe presentata con cadenza fissa nel locale un’attrice che, all’epoca, era la compagna di Antonio Casamonica. Dopo poco tempo sarebbero arrivati anche i due componenti del clan. «Lui è un Casamonica, figlio di una persona potente, non lo fare arrabbiare, dagli i soldi», avrebbe detto la donna. Il ristoratore, però, ha detto di avere rifiutato l’offerta: in risposta, sarebbe stato aggredito da un gruppo di uomini incappucciati che gli avrebbero anche rubato l’auto. Alla vittima - che però non si è costituita parte civile - sarebbe stato imposto anche il pagamento di 200 euro al mese. L’accusa per gli imputati è estorsione e rapina aggravata dal metodo mafioso. Per l’avvocato Giuseppe Cincioni, che assiste Antonio Casamonica, però, i fatti non sono provati, anzi: «A mio parere dalla dichiarazioni rese in aula sono emerse notevoli contraddizioni su aspetti nevralgici della vicenda, che minano la credibilità della persona offesa».

 
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Il Gazzettino