Cannabis light, dopo la stretta chiusura per metà dei negozi

Vendere marijuana e hashish light, a prescindere dal livello di principio attivo, è reato. A stabilire la linea dura contro i migliaia di “cannabis shop” nati...

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Vendere marijuana e hashish light, a prescindere dal livello di principio attivo, è reato. A stabilire la linea dura contro i migliaia di “cannabis shop” nati in tutta Italia, sono state le Sezioni Unite penali della Cassazione. I supremi giudici hanno pubblicato ieri le motivazioni della sentenza che lo scorso 30 maggio aveva dato il là a controlli e sequestri da parte delle Procure, chiarendo che la legge 242 del 2016 che promuove la filiera della canapa - e che aveva favorito l’apertura dei negozi lungo tutta la Penisola - riguarda solo alimenti o cosmetici. Da oggi quindi ciò che occorre verificare non è la percentuale di principio attivo (al momento fissata fino a un massimo di 0,6% di Thc) ma l’idoneità «in concreto» a produrre un «effetto drogante».  Tuttavia le motivazioni dei supremi giudici non chiariscono del tutto i dubbi di esercenti, produttori, consumatori e associazioni di categoria. «Io non credo cambi qualcosa, noi continueremo a lavorare, piantare e commercializzare i nostri prodotti». A garantirlo è Riccardo Ricci, 30enne forlivese, cofondatore dell’azienda CbWeed e presidente dell’Associazione Italiana Cannabis Light. «Ne stiamo discutendo - dice raggiunto al telefono poco dopo un incontro con gli avvocati dell’Aical - ma anche dopo la lettura delle motivazioni, la sentenza rischia solo di creare ulteriore confusione perché ancora una volta da spazio alle Procure di agire in maniera differenziata».


IL RUOLO DEL GIDUDICE

In pratica il timore di Ricci e del suo team legale è che poter continuare a vendere o meno i prodotti derivati dalla canapa sia soltanto una questione di fortuna geografica. «Le faccio un esempio: prima del 30 maggio i negozi erano circa mille in tutta Italia - continua - poi sono iniziati i controlli. Mentre a Roma e Milano sono rimasti sempre gli stessi, circa 50 per città, a Torino dove la Procura è stata molto più rigida hanno chiuso quasi tutti». Più in generale, nonostante l’assenza di dati ufficiali, sembrerebbe che già nei 40 giorni che hanno preceduto le motivazioni di ieri, molti negozi abbiano ceduto all’iniziativa promossa da Matteo Salvini (che a maggio aveva garantito «Li chiuderò uno ad uno») e «almeno il 50% di loro» secondo Ricci avrebbe abbassato le serrande in attesa di capire qualcosa in più. Un chiarimento che comunque non sembrerebbe essere arrivato. La nuova confusione paventata da Aical infatti, trova giustificazione nel corollario delle motivazioni in cui, la Suprema Corte, ha aperto ad una valutazione caso per caso degli effetti penali del divieto. «Secondo il principio di offensività» hanno precisato i giudici, occorre verificare l’idoneità «in concreto» a produrre un «effetto drogante». Il che vuol dire da un lato che la condotta è senza dubbio illecita e dall’altro che in alcuni casi si potrebbe profilare come fatto particolarmente tenue con conseguente esclusione della punibilità. Differenziazione che, come ovvio, toccherà al giudice stabilire caso per caso. Una incertezza sottolineata anche dal fatto che le Sezioni Unite abbiano voluto specificare come resti «salva la possibilità per il legislatore di intervenire sulla materia così da delineare una diversa regolamentazione del settore che involge la commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L, nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali». Un invito a legiferare formalizzato in una nota ufficiale anche da Coldiretti: «Serve un intervento definitivo del legislatore per tutelare i cittadini senza compromettere le opportunità di sviluppo del settore con centinaia di aziende agricole che hanno investito». 
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Il Gazzettino