Suicidio assistito in Svizzera dopo la morte del figlio. Il marito avvisato da una mail della clinica

La donna, 55enne con un lavoro a Torino, aveva perso il figlio a causa di una malattia neurodegenerativa ed era seguita da uno psichiatra. L'associazione Exit Italia: «Escludiamo che si proceda per una depressione»

Suicidio assistito in Svizzera dopo la morte del figlio. Il marito avvisato da una mail della clinica
Una donna di 55 anni con un impiego a Torino è morta lo scorso 12 ottobre in Svizzera, utilizzando la possibilità del suicidio assistito. La vicenda sarebbe...

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Una donna di 55 anni con un impiego a Torino è morta lo scorso 12 ottobre in Svizzera, utilizzando la possibilità del suicidio assistito. La vicenda sarebbe avvenuta con la sorpresa dei familiari, tranne per un sms ricevuto dal suo avvocato un'ora prima della morte da un numero anonimo, con le ultime volontà: «Per favore, vai a casa, stacca le utenze, regala i miei vestiti in beneficenza e affida a mio marito l'urna con le ceneri di nostro figlio». Unico altro elemento una mail dalla clinica al marito della donna, a suicidio avvenuto, sul pagamento di 10.700 euro. Che era finita nella casella dello spam. 

La clinica, ha raccontato Repubblica, è a Basilea e il marito e la sorella di lei avevano cercato invano di contattarli per spiegare che nel gennaio del 2023 era morto il figlio adolescente per una malattia degenerativa, quindi la donna era seguita da uno psichiatra.

Il suicidio assistito in Svizzera

Come noto la pratica del suicidio assistito non è legale in Italia, così come in altri Paesi, mentre lo è in Svizzera, dove le strutture quindi accettano anche persone da fuori. Strutture che si trovano facilmente sul web, in più lingue, alcune persino con uno spiccato accento su burocrazia snella e tempi brevi. La legge però parla chiaro e a spiegarlo è l'avvocata Arianna Maria Corcelli, legale dell'associazione torinese Exit Italia, che promuove l'autodeterminazione in tema di vita e di morte.

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Il precedente

Ricorda una vicenda simile: il presidente di Exit Italia, Emilio Coveri, è stato condannato a tre anni e quattro mesi per il caso del 2019 di una 47enne del Catanese. In primo grado era stato assolto e il 14 febbraio si dovrà pronunciare la Cassazione. La donna, iscritta a Exit, e che fece ricorso al suicidio assistito a Zurigo, soffriva di depressione e della sindrome di Eagle. I piani della donna di cui ora racconta Repubblica sarebbero stati scoperti lo scorso luglio dalla sorella e dal marito stesso, che per lavoro vive Oltreoceano. «L'abbiamo fatta ragionare» avrebbe detto l'uomo.

Niente da fare però, a quanto pare, per contattare direttamente la clinica, a cui lui e cognata avrebbero voluto spiegare che la donna era in cura psichiatrica, dopo la morte del figlio a gennaio, per malattia, secondo quanto riferisce il giornale. «È una storia che mi fa riflettere. Se la signora non avesse avuto una patologia irreversibile dubito che potesse togliersi la vita e mi sento di escludere che si proceda con un suicidio assistito per una depressione» commenta l'avvocata Corcelli. A riflettere più in generale, al di là del caso in questione, è Enrico Larghero, medico bioeticista, direttore del master di bioetica della facoltà teologica di Torino e docente di bioetica alla facoltà di Medicina. Il tema del suicidio assistito «dovrebbe indurci a due riflessioni - sostiene-, la prima su cosa vogliano dire cura, medicina, medicalizzare l'esistenza umana, l'altra di tipo non medico ma sociale sulla società attuale, spesso fatta da un'umanità di gente sola».

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Il Gazzettino