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Era stato in una cella di massimo isolamento fino a 48 ore prima di morire Alexei Navalny. Ce lo avevano mandato per la 27esima volta da quanto era stato arrestato, hanno contato i suoi. In tutto, 295 giorni in punizione sui 1126 passati nelle carceri di Putin. Ma la cella di punizione del carcere di Kharp era la peggiore di tutte quelle in cui era passato prima, perché tutto è peggio dentro l’IK3, il carcere oltre il circolo polare artico, il più a settentrione, il più duro, ricostruito nel ‘61 sulle rovine di un gulag di Stalin. Lo chiamano «lupo polare»: intorno la tundra ghiacciata, dall’alta parte gli Urali dell’Artico. La vicina città di Kharp ospita quasi solo le famiglie di gente che lavora nella prigione, guardie, secondini, impiegati. Il primo febbraio Navalny era stato rispedito in «cella disciplinare». Un loculo ghiacciato, umido, senza luce, che d’inverno comunque non c’è mai: «quando guardo dalla finestra è notte, poi sera, poi di nuovo notte» aveva scritto Navalny su Instagram a Natale, facendo sapere a tutti dove era stato trasferito. Mercoledì 14 febbraio torna in cella dopo quindici giorni di isolamento. Anche se la prova deve essere stata terribile, lui tiene, la corazza che si è cucito addosso resiste. Il giorno dopo, giovedì c’è un’udienza, in remoto, con il tribunale di Khovrov. Navalny appare sorridente, solido (così lo avevano trovato anche i genitori il 12 febbraio, quando avevano potuto rivederlo dopo mesi). Parla via video con un giudice coi capelli rossi, molto giovane. L’udienza riguarda una denuncia che Navalny ha sporto contro le condizioni di detenzione nella Colonia penitenziaria Numero 6 della regione di Vladimir, dove era carcerato prima di arrivare in Siberia.
RISATE AMARE
La cosa non dura molto, Navalny scherza col giudice: gli chiede se può passargli qualcosa del suo buon salario perché lui «è un po’ a secco» , proprio «a causa di tutti questi procedimenti» e «non riesce a comprarsi più niente allo spaccio della prigione».
Il Gazzettino