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Un raid israeliano ha ucciso una donna capo di Hamas, Jamila al-Shanti, 68 anni, nella sua casa nella Striscia di Gaza. Jamila si batteva per i diritti delle donne, aveva conseguito un dottorato in lingua inglese negli Emirati, era docente all’università islamica di Gaza. Appoggiava Hamas, aveva fatto parte del consiglio legislativo dell’organizzazione ed era vedova di uno dei fondatori del movimento, Abdel Aziz al-Rantizi, soprannominato “Il Leone della Palestina”, ucciso dagli israeliani con un missile Hellfire nel 2004. Jamila era diventata famosa nel 2006, quando si era messa a capo di una marcia per rompere l’assedio alla moschea di Beit Hanoun, a sei chilometri dalla città israeliana di Sderot. Tre giorni dopo la sua casa fu bombardata, causando la morte di sua cognata Nahla al-Shanti. Nello stesso anno fu la donna più anziana a diventare deputato e nel 2013 fu nominata ministro per le donne. È stata la prima donna ad essere eletta nell’ufficio politico di Hamas, era il simbolo dell’apertura alle donne palestinesi nella catena di comando.
Jamila, la dirigente uccisa
Come già aveva fatto nelle guerre passate, Israele non distingue tra i terroristi operativi e gli esponenti politici di Hamas: sono il braccio e la mente di un unico progetto e la strategia è quella di eliminarli uno per uno in modo da privare la manovalanza della sua classe dirigente. Jamila era stata fotografata giorni fa sorridente, il capo coperto dallo hijab, il velo islamico, insieme a un gruppo di capi di Hamas. Ieri l’immagine circolava sui siti israeliani, con un cerchio rosso disegnato intorno ai volti di quelli già uccisi. C’erano Jawad Abu Shamala, ministro dell’economia, e Zakaria Abu Anmar, capo del Dipartimento relazioni nazionali, entrambi uccisi il 10 ottobre; Osama al-Mazini, capo del Consiglio della Shura, la direzione politico religiosa di Hamas, responsabile dei prigionieri dell’organizzazione, ucciso il 16 ottobre; e c’era lei, Jamila, colpita ieri nella sua casa.
L’elenco dei ricercati
Al centro dell’immagine un altro volto che Israele spera di cerchiare presto di rosso: quello di Yahya Sinwar, il leader di Hamas nella Striscia di Gaza, nato nel 1962 nel campo profughi di Khan Yunis.
La caccia
Il più ricercato è Ismail Haniyeh, che vive in un albergo a sette stelle con la moglie e i loro 13 figli a Doha, capitale del Qatar. Si è visto un video nel quale festeggia la carneficina del 7 ottobre, augurandosi il completamento dell’intifada. Haniyeh è stato il braccio destro del fondatore di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin, ed è oggi il volto pubblico dell’organizzazione. Fa la spola tra i Paesi amici, compresi la Giordania, l’Iran, e la Siria Khaled Meshal, sopravvissuto alla «pozione di Dio», vale a dire l’avvelenamento da parte di agenti del Mossad nel 1997 ad Amman. Due agenti furono arrestati e re Hussein di Giordania chiese a Netanyahu l’antidoto per salvare la vita del leader palestinese, che gli fu spedito. In Libano vivono Saleh al-Arouri, capo militare e politico, e Osama Hamdan, responsabile delle relazioni internazionali. Altri membri di Hamas sono in Turchia. Ma i capi di Hamas che vivono all’estero per ora saranno lasciati in pace: quando verrà il momento delle trattative, la loro presenza in Iran, Turchia, Qatar, Giordania e Libano potrebbe tornare utile al dialogo e alla ricerca di un compromesso.
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Il Gazzettino