OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
Tutto il sito - Mese
6,99€ 1 € al mese x 12 mesi
oppure
1€ al mese per 3 mesi
Tutto il sito - Anno
79,99€ 9,99 € per 1 anno
Il “miracolo dei cavi” si è compiuto in una notte, e da solo varrebbe un film. Perché nell’era dell’interconnessione digitale, in cui a chiunque basta un click per comunicare, c’è un luogo che il web non può raggiungere: il carcere. Eppure quei cavi, nel carcere romano di Rebibbia, ci sono avventurosamente arrivati. E con loro è arrivata anche la possibilità per i detenuti, condannati nei primi mesi del 2020 al lockdown più estremo di tutti, di tornare a comunicare, seppure online, con i propri familiari.
A raccontarlo è il docufilm Rebibbia Lockdown di Fabio Cavalli, presentato ieri a Venezia78, prossimamente in sala e a fine ottobre sulla Rai. Nato da un’idea della vicepresidente della Luiss Paola Severino, già ex ministro della Giustizia, il film racconta la storia vera di quattro detenuti e altrettanti studenti universitari (volontari del progetto “Legalità e Merito”), accomunati dall’amore per lo studio, separati dal lockdown e riuniti da un miracoloso espediente: i cavi, appunto.
Come è nata l’idea?
«L’idea, quella di insegnare la legalità ai giovani, ce l’ho da sempre. È una lezione che ho imparato dal direttore dell’anticorruzione di Hong Kong. Là, un tempo, il tasso di corruzione era tale che se ti scoppiava un incendio a casa, e non avevi soldi da dare ai pompieri, nessuno avrebbe spento le fiamme. Quando ho chiesto come avessero fatto a risolvere il problema, il direttore dell’anticorruzione mi rispose così: “Insegniamo la legalità ai bambini di tre anni”».
Il progetto con Rebibbia, prima del Covid, in cosa consisteva?
«Gli studenti dovevano andare a Rebibbia di persona, per aiutare i carcerati diplomandi a superare gli esami universitari.
E cosa è successo?
«Abbiamo deciso di non fermarci. L’aspettativa dei detenuti era forte e dovevamo essere presenti. Abbiamo iniziato scrivendo lettere, ma poi non è stato più possibile. La svolta è arrivata interagendo con loro attraverso le mail, le videochat, il web».
Che impatto hanno avuto le videochiamate sui detenuti?
«Fortissimo. Anche perché hanno potuto rivedere in chat la vita fuori, i nipotini, persino i loro animali domestici. La privazione della libertà, sommata all’interruzione dei rapporti con la famiglia, è una miscela esplosiva».
Le videochat in carcere continueranno?
«Spero di sì e farò tutto quello che posso perché accada. Al docufilm ha partecipato anche il capo del dipartimento penitenziario, la più alta autorità in materia di carceri: era coinvolto e fiero del miracolo fatto a Rebibbia in una notte, quello di portare i cavi in carcere. Bisognerebbe riflettere su quanto accaduto e renderlo permanente».
La rivolta nel carcere: perché raccontarla?
«C’è stato un episodio orrendo, quello della rivolta a Santa Maria Capua Vetere, ma in tante altre carceri gli agenti penitenziari hanno fatto miracoli. Hanno sedato la rivolta senza fare del male a nessuno, senza evasi e mantenendo l’ordine. A Rebibbia il contatto digitale con i familiari ha aiutato moltissimo a calmare gli animi. Ma i detenuti di Rebibbia sono abituati a essere stimolati».
Quali sono i preconcetti più comuni tra i ragazzi sul carcere?
«Che non li debba interessare. Si sentono innocenti, pensano che in carcere ci vada chi commette reati e dunque non se ne interessano. Ma è facile stare nella legge quando non ci sono tentazioni esterne».
Nel film dice che scrive ancora ai detenuti. A chi scrive?
«Ho dei detenuti, che chiamo aficionados, che mi scrivono anche una volta usciti dal carcere. Uno di loro, in particolare, è una persona straordinaria. Fu il primo caso di eutanasia non riconosciuto come tale, uccise la moglie e volle scontare la pena fino all’ultimo giorno. Sua figlia, oggi, è in prima fila nelle associazioni pro eutanasia».
Paola Severino
La prima volta che è entrata in carcere?
«Tanti anni fa. Ci andai da avvocato. Capii come il carcere ti trasforma: anche una persona importante, dopo un giorno di carcere, si apre al confronto. E poi ci sono tornata da ministro, impegnandomi per il problema del sovraffollamento carcerario. Oggi credo di essere la persona in Italia che è entrata più spesso nelle carceri».
Il cinema come racconta il carcere?
«La novità è che lo racconta. Quest’anno sono usciti molti film e docufilm, anche qui a Venezia: vuol dire che la pandemia ci ha insegnato tanto. Il cinema è un grande strumento di comunicazione e sono convinta che possa portare al carcere un’attenzione straordinaria».
rebibbia lockdown Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino