Toni Servillo: «Agli Oscar ho votato per Garrone. Sanremo-Geolier? Non esiste un pregiudizio anti-napoletano»

L'attore interpreta uno scrittore in crisi nel film "Caracas" con la regia di D'Amore: «Ho riscoperto Napoli diretto dal mio allievo»

Paolo VI a confronto con le Brigate Rosse (Esterno notte), un criminale romano mentalmente annebbiato (Adagio), un tipo che gravita intorno a Matteo Messina Denaro...

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Paolo VI a confronto con le Brigate Rosse (Esterno notte), un criminale romano mentalmente annebbiato (Adagio), un tipo che gravita intorno a Matteo Messina Denaro (nell'imminente Iddu): sono gli ultimi personaggi portati sullo schermo da Toni Servillo che il New York Times ha inserito nella lista dei 25 migliori attori del 21esimo secolo. Ora Toni, 65 anni e una carriera incessantemente divisa tra cinema e teatro, affronta un nuovo ruolo destinato a lasciare il segno: è uno scrittore in crisi che torna dopo anni nella natìa Napoli per scoprirne gli aspetti più oscuri e segreti in Caracas, un film coinvolgente e insolito tra realtà e sogno, deciso a volare alto, con la regia di Marco D'Amore, anche coprotagonista (in sala il 29 febbraio). Ispirato al libro Napoli Ferroviaria di Ermanno Rea (Feltrinelli), il film segue lo scrittore inoltrarsi nel ventre della città in compagnia di Caracas (D'Amore), un ex naziskin che vuole convertirsi all'Islam. E che forse è un personaggio immaginario.

Cosa l'ha spinta a interpretare "Caracas"?
«Soprattutto la gioia di lavorare con Marco a ruoli invertiti: è cresciuto nella mia compagnia teatrale e, dopo aver conquistato la grande popolarità (grazie alla serie Gomorra, ndr), ha avuto il coraggio di realizzare questo film tanto complesso per donarlo agli spettatori della sua generazione».

Lo scrittore da lei interpretato è in crisi perché crede che il suo mestiere non abbia più gli strumenti per capire la realtà: è capitato anche a lei di pensarlo?
«Certo, il mondo attuale è così complicato che è facile sentirsi inadeguati. Poi per fortuna molti artisti smentiscono con le loro opere questa preoccupazione».

Cosa ha scoperto di Napoli, una città portata tante volte sullo schermo?
«Due mondi opposti a cui non mi ero mai avvicinato: l'estrema destra fascista e la grande comunità islamica. È stato interessante».

Come Jep Gambardella, il suo mitico personaggio in "La grande bellezza", ha individuato le cose che, compiuti i 65, non vuole più perdere tempo a fare?
«No (ride, ndr), non ho la sfacciataggine di fare completamente mio quel proposito tanto citato. Ho adorato interpretare Jep ma sono totalmente diverso da lui».

Dieci anni fa il film di Sorrentino vinceva l'Oscar, quest'anno è in finale Matteo Garrone: lei, che è membro dell'Academy, cosa si aspetta?
«Ho votato senza tentennamenti per Io Capitano. Mi auguro che per Matteo, uno dei più grandi registi contemporanei, si ripeta la stessa gioia che la vita regalò a noi nel 2014 portandoci l'Oscar. Ricordo con emozione il Festival di Cannes 2008 che premiò sia Gomorra di Garrone sia Il Divo di Sorrentino e spero ora nella doppietta all'Oscar».

Cosa cerca oggi nel suo lavoro?
«Dopo aver avuto tante bellissime opportunità, inseguo la sfida, cioè ruoli sorprendenti e mai convenzionali. E non trascuro il teatro: continuo a portare in tournée in mezzo mondo il testo di Giuseppe Montesano Tre modi per non morire, una riflessione sul potere della poesia».

La mancata vittoria di Geolier a Sanremo è frutto di un complotto anti-napoletano?
«Non conosco il rapper, ma so che è più seguito al Nord che nella sua città. Il caso Sanremo è una montatura mediatica. Non esiste un pregiudizio contro Napoli, i teatri di tutta Italia sono sempre pieni di drammaturgie e attori napoletani... e poi i ragazzi che seguono Geolier se ne fregano delle polemiche, ascoltano la musica che amano».

Cosa raccomanda ai giovani attori che le chiedono "dritte"?
«Di fare questo mestiere al di fuori della routine. Cioè liberi, non assoggettati alle leggi del mercato».

Va spesso al cinema?
«Sì, e quest'anno ho visto molti film meravigliosi. Tanto da trovarmi in imbarazzo quando, oltre a Garrone, ho dovuto votare per gli altri concorrenti all'Oscar».

Come intrattenimento, il cinema ha perso terreno?


«È una preoccupazione che condivido. Come il teatro, il cinema è un avamposto di civiltà. Garantisce un'esperienza condivisa e va visto in sala. E gli incassi dei film di qualità confermano che la gente cerca conforto emotivo e intellettuale. Cioè un cinema che parli al cuore». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino