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La Rai ai tempi di Meloni che perde share? «Fake news». Il gender gap che ancora pesa sulla tv pubblica? Sempre meno, «daremo voce alle donne». Roberto Sergio è un fiume in piena. E si toglie qualche sassolino, l’amministratore delegato della Rai, ascoltato in una lunga audizione in Commissione di Vigilanza, affiancato dal direttore generale Giampaolo Rossi. «In queste settimane sono circolate delle vere e proprie ‘fake news’», mette a verbale il numero uno di viale Mazzini.
Un mese fa, a scanso di equivoci, Sergio aveva fatto assemblare in un documento Pdf la lista di “fake” che a suo dire circolano sulla tv pubblica. Fra queste la perdita di uno storico primato: quello dei canali generalisti Rai a fronte del loro concorrente numero uno, Mediaset. Nulla di vero, ha assicurato ieri snocciolando i numeri in commissione. «Rai Uno, Rai Due e Rai Tre nel periodo autunnale (1° ottobre - 16 dicembre) stanno totalizzando una share complessiva pari a oltre 3 punti in più rispetto ai comparabili tre canali generalisti dei competitor», spiega. Aggiungendo che quel gap sale a 5 punti percentuali se si confrontano le prime serate fra tv rivali.
Rai, il bilancio dell'ad Sergio
Insomma, se è vero che sui canali tematici - dati Auditel alla mano - la concorrenza del Biscione si fa sentire, sui generalisti il primato della Rai meloniana c’è e resiste, assicura la dirigenza. Chiamata a fare una radiografia del servizio pubblico in Parlamento in giornate caldissime per il dibattito Rai.
Con le opposizioni in trincea a difesa del «pluralismo» della Rai per il caso “Domenica in”, cioè la puntata del 19 novembre in cui a commentare il femminicidio di Giulia Cecchettin, in studio, sono state chiamate due parlamentari di centrodestra (Dalla Chiesa e Matone), e basta. A Montecitorio l’Ad rassicura e rilancia. «Il giornalismo d’inchiesta è un pilastro nell’ambito dell’informazione e della nostra responsabilità». Segue lista dei programmi che, Sergio ne è convinto, difendono il pluralismo Rai senza fare sconti a nessuno. Report in testa. E poi Presa diretta, Mi manda Rai Tre, Chi l’ha visto e via dicendo. Insieme alle inchieste la nuova Rai punterà sull’approfondimento. Partendo, spiega Sergio, dal grande tema della violenza sulle donne e del gender gap che spesso ne è anticamera. «La parità di genere è un pilastro dell’inclusività. Dando voce alle donne e affrontando il gender gap, i media pubblici si ergono come un faro di equità», dice Sergio in Vigilanza anticipando un concerto in prima serata su Rai 2 a maggio, dall’Arena di Verona, per raccogliere fondi per i centri antiviolenza.
I CONTI
C’è spazio per uno sguardo ai conti Rai e anche qui i numeri sorridono alla tolda di comando che da sei mesi guida la tv pubblica, così sostiene Sergio. «L’indebitamento finanziario netto del Gruppo era previsto a fine anno in 650 milioni di euro. Chiuderemo invece il 2023 a 560 milioni, risultato raggiunto grazie a interventi gestionali e alla crescita dei ricavi pubblicitari». Tagli a Rai Cultura? Se ne è parlato molto, ma è un’altra «fake news», giura l’ad, «è stato solo richiesto un saving sui costi di funzionamento».
Avanti dunque con il piano industriale, «l’offerta Rai porterà a un aumento degli introiti pubblicitari» prevede Sergio spiegando che i 90 milioni di riduzione del debito annunciati da Viale Mazzini «altro non sono che pubblicità e una serie di costi non editoriali ma gestionali che sono stati ridotti». Quanto al nuovo piano immobiliare, che taglierà costi e inefficienze con una riorganizzazione dei poli di produzione a Roma, Torino e Milano, resta la garanzia di non ridurre il peso e la forza degli studi Rai nella Capitale, anzi: «il piano rafforzerà la Rai, a partire da Roma, la sede di Viale Mazzini e il Centro di Produzione Biagio Agnes.
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Il Gazzettino