VENEZIA - «Sono fiero di aver fatto i film che volevo. Sono tutti nati da mie scelte, non ho mai accettato compromessi. Quando a 13 anni ho deciso di diventare sceneggiatore non...
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«Il primo grande riconoscimento di questo tipo viene dall'estero, anche se in Francia ho vinto quattro Cesar, il premio Delluc... non posso dire di non essere stato apprezzato. Certo, sono profondamente colpito dal ricevere Leone d'oro alla carriera dal Paese che ha contribuito moltissimo al mio amore per il cinema, con Rossellini, Fellini, Dino Risi, Ettore Scola, il mio grande amico Mario Monicelli. Una mia aspirazione era riuscire a fare un film bello come La vita difficile di Risi, o Germania anno zero di Rossellini». Il cineasta, nato nel 1941 a Lione, figlio di René Tavernier, filosofo, poeta e capitano nelle forze di Resistenza che liberarono la città («mi ha sempre stupito, non sapeva tenere un fucile in mano»), in oltre 50 anni di cinema ha vinto, fra gli altri, l'Orso d'argento a Berlino per la sua opera prima L'orologiaio di Saint-Paul (1974) e l'Orso d'oro nel 1995 per L'esca.
Secondo lei la Francia è un Paese finito, come ha detto ieri qui Fabrice Luchini?
«Guardando al governo terribile che abbiamo, la sensazione è quella, ma c'è anche la gente vera, quella che vive in provincia e che conosco molto bene. Danno esempi concreti di fede e amore, come le persone che in Borgogna hanno creato un piccolo centro d'assistenza per gli immigrati. Gente che appartiene alla Francia popolare, l'unica che è sfuggita al Fronte Nazionale».
«Qui a Venezia ci sono due film francesi in concorso molto belli, Marguerite e L'hermine. Nel cinema francese ci sono cose straordinarie e altre che mi fanno arrabbiare come certe commedie bruttissime, ma succede dappertutto. Quando vedo un film bello, ne perdono 15 brutti».
Nel suo cinema, spiega, non parte mai «da un tema, ma dalle storie delle persone - dice -. È vero però che certi elementi risultano particolarmente attuali.
Il Gazzettino