MESTRE - Una piccola folla si raduna spontaneamente in attesa del suo arrivo. In pochi istanti dalle borse spuntano i vecchi vinili tipo “Simphonie Celtique” o...
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Ora il quadro è cambiato. Il concerto al teatro Corso è stato breve, Stivell in molti punti è parso un po’ approssimativo e l’irruenza di una volta è svanita. Di buono, però, c’è il fatto che in questo tour per il lancio del suo ultimo disco “Human Kelt” l’artista ha puntato su una trio con il quale concentra la sua attenzione prevalentemente sui classici bretoni, evitando le incursioni nel mondo elettrico. Sembra un ritorno alle origini acustiche visto che dalla sua arpa celtica sono spuntati fuori “An Alrach”, “Son a chistr” poi rielaborata nel “Gulliver” di Angelo Branduardi e soprattutto l’accattivante “Suite Sudarmoricaine”. Un patrimonio musicale di assoluto valore se si pensa che è stato grazie a questi cavalli di battaglia che Stivell è riuscito ad imporre uno strumento come l’arpa celtica (oggi rielaborata per garantire nuovi suoni) che prima di lui pochi conoscevano. Una presenza carismatica che, nonostante i 75 anni, mantiene inalterato il suo fascino frutto di una ricerca su materiali tradizionali (in un brano ha anche suonato la bombarda) e di un canto che rievoca antiche vicende popolari bretoni.
Sono molto legato all’Italia - ci spiega alla fine del concerto - perchè qui, a Portrofino, nel 1966 ho tenuto il mio primo concerto fuori dalla Francia».
Forse questo legame intimo tra il cantante e il suo pubblico si fonda su un passato in cui suoni, tradizioni e leggende arricchivano rassegne e produzioni discografiche con estrema naturalezza. Adesso, nonostante la bella chiusura con l’incalzante “Tri martolod” accompagnata dal pubblico, quel tipo di sensibilità sembra legata al passato. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino